DAL TESTAMENTO BIOLOGICO AL REFERENDUM. RIFLESSIONI SUL FINE VITA

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DAL TESTAMENTO BIOLOGICO AL REFERENDUM. RIFLESSIONI SUL FINE VITA

 

 

Il presente contributo sintetizza il contenuto di un mio breve intervento sul tema ad una serata Organizzata dal Rotary Club Erba Laghi con il contributo del Presidente dott. Cristian Paradiso, l’Avv. Massimo Rossi di Milano in rappresentanza dell’associazione Luca Coscioni e padre Raffaele Finardi quale voce del mondo Cattolico.

 

 

introduzione

Quando parliamo di “fine vita” parliamo in realtà di un fenomeno molto complesso.

In ogni epoca, da un punto di vista etico, religioso e anche giuridico, l’uomo si è sempre preoccupato della fase finale della vita, non nel senso della senilità, quanto proprio del momento in cui si sa che la morte è ormai certa e prossima.

Le varie culture, con differenze di epoca e di luogo, hanno spesso codificato il comportamento da tenere e le “cose da fare” in questo particolare momento.

In epoca moderna però la gestione di questo momento ha assunto contorni differenti e si è presentato con problemi e questioni nuove.

A cosa è dovuto questo cambiamento ? Gli aspetti sono tanti che distinguono l’ultimo scorcio del XX secolo e il primo scorcio del XXI rispetto alle epoche precedenti.

Nelle epoche passate la sensazione di precarietà della vita era sicuramente maggiore di oggi. Miglioramento della qualità della vita, diffusione di standard di vita e di igiene differenti, soggezione a eventi bellici, mortalità infantile, e soprattutto i notevoli progressi delle scienze mediche e farmaceutiche sono alcuni degli elementi che hanno fatto crescere la vita media senza confronto rispetto alle epoche precedenti. A tale proposito basta pensare cosa comportava all’inizio del secolo scorso un parto problematico o una banale (per noi) appendicite il cui esito fatale era pressoché scontato (prima dell’intervento per imperizia dei chirurghi privi di strumenti e dopo l’intervento per le setticemie che decimavano anche coloro che venivano curati).

Il progresso di medicina e farmaceutica ha reso, fortunatamente, molte patologie curabili e, di fronte a particolari circostanze la perizia dei medici consente di mantenere in vita, talvolta per lunghissimo tempo, persone colpite da patologie particolarmente invalidanti o particolarmente dolorose che, in epoche passate, non sarebbero certamente sopravvissute se non per brevissimi periodi.

E’ chiarissimo che tutto questo ha un effetto rassicurante sulle nostre vite e altrettanto chiaro che tutti noi confidiamo che questi progressi non si arrestino. Tuttavia questa grandissima capacità delle scienze mediche e farmaceutiche aprono a domande che forse prima erano lasciate solo alla speculazione filosofica ma che ora hanno una assoluta rilevanza pratica.

La preservazione della vita deve porsi il problema della qualità della vita ? E’ etico continuare a curare persone che non hanno più coscienza di se stesse e non l’avranno mai più, oppure persone che sopravvivono pur a fronte di dolori e disagi psichici e fisici insopportabili ?

Cerchiamo di inquadrare il problema nell’ambito giuridico prima di passare alla dimensione etica propria del dibattito che seguirà.

Inquadramento giuridico

Con il progredire della scienza sono emersi alcuni problemi di natura giuridica che hanno trovato una loro soluzione creando, in Italia,  un quadro ancora oggi variabile.

La dimensione giuridica del “fine vita” si snoda in un percorso formato (potenzialmente) da possibili passaggi  che in maniera un po’ provocatoria potremmo mettere in “progressione etica”:

  • La gestione delle cure e le cure palliative;
  • La validità e i confini delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
  • La tematica del suicidio assistito o aiuto al suicidio
  • La tematica dell’eutanasia.

 

Le cure Palliative e la terapia del dolore

Spesso nella lingua italiana il termine “palliativo” è utilizzato nel senso di superfluo o addirittura inutile. Questa accezione sicuramente è fuorviante.

Si intendono per palliative le cure medico / farmacologiche che non vengono somministrate per indurre una guarigione o un miglioramento nella malattia, ma che agiscono per alleviarne e renderne maggiormente tollerabili i sintomi.

Le cure palliative nascono dalla prassi ospedaliera che, come missione principale ha quella di curare il malato, ma anche di alleviarne le sofferenze.

La priorità è sempre stata la cura e proprio per questo il ricorso alle cure palliative in passato non è stato uniforme sul territorio nazionale. Dagli anni novanta del secolo scorso si è cominciato a riflettere sulla necessità che le cure palliative diventassero un qualcosa da garantire al malato che non avesse alcuna speranza di guarigione.

La normativa di riferimento, quindi, non ha introdotto le cure palliative, ma si è limitata a incentivarne la diffusione a livello burocratico e a livello finanziario favorendo la nascita e lo sviluppo, tra l’altro delle strutture Hospice e delle cure palliative domiciliari.

Su un piano puramente etico il ricorso e il favore per le cure palliative trovano un pressoché unanime sostegno, sicuramente maggiore rispetto a DAT, suicidio assistito e eutanasia.

Nel catechismo della Chiesa Cattolica, all’interno dei paragrafi dedicati al 5° comandamento (Non uccidere) il punto 2279 recita “L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.”.

Il passaggio è particolarmente importante e testimonia la profonda riflessione interculturale presente su questo tema. La premessa ci dice moltissimo sulla reale portata dell’inciso Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

Tra le cure palliative merita infatti particolare attenzione la sedazione palliativa profonda e continua.

Di cosa si tratta ? Il termine palliativo ci circoscrive la finalità: non serve per curare ma per alleviare. Il termine profondo avvicina il concetto di sedazione a quello di anestesia, mentre il termine continuo significa che la sedazione sarà  (tendenzialmente) ininterrotta fino al sopraggiungere della morte.

Si tratta quindi di un trattamento medico in base al quale il paziente, afflitto dalla sofferenza viene sedato sino a renderlo incosciente in un sonno ininterrotto fino al sopraggiungere della morte.

In un fisico debilitato dalla malattia il farmaco ha inevitabilmente l’effetto di abbreviare la durata della vita umana, ma ciò è eticamente tollerabile anche per l’etica Cattolica se l’intenzione del medico è quella di alleviare la sofferenza e non quella di provocare la morte (da notare che il punto citato è nel sottocapitolo del Catechismo dedicato all’eutanasia, pratica considerata non ammissibile in maniera molto chiara anche nelle ultime Udienze di Papa Francesco).

Questo trattamento palliativo si colloca pertanto in un’area di confine in cui anche molte tra le posizioni eticamente contrapposte tendono a trovare una composizione.

E’ sicuramente importante sottolineare questo ultimo aspetto non dimenticando tuttavia che le cure palliative ineriscono soltanto ad una parte delle problematiche che, più da vicino e più spesso, interessano il fine vita.

Le cure palliative rappresentano infatti un sollievo per coloro che versano nello stadio terminale di una malattia che comporta particolari livelli di sofferenza. Appare invece insufficiente agli occhi di chi vive la diversa problematica della malattia degenerativa invalidante oppure i postumi di eventi traumatici fortemente invalidanti. Il riferimento è evidentemente ai malati di SLA oppure a coloro che, dopo un incidente si trovano in stato di tetraplegia con le sofferenze fisiche connesse e le sofferenze psichiche, talvolta ancora più importanti di quelle fisiche, di vedersi totalmente dipendenti da qualcuno negli occhi del quale si vede solo pena e sofferenza.

Le Disposizioni anticipate di Trattamento

Le DAT vengono introdotte con la legge 22 dicembre 2017 n. 219.

L’introduzione delle DAT è stata il frutto, come purtroppo spesso accade in Italia, di un percorso segnato da alcuni casi che hanno particolarmente colpito l’opinione pubblica e hanno avuto un percorso giudiziario tale da obbligare il Parlamento a prendere finalmente una posizione.

Il primo caso riguardava la vicenda di Piergiorgio Welby che, colpito da una malattia progressiva (Distrofia muscolare), decise, con il supporto attivo della moglie di rifiutare i trattamenti (medici) di supporto vitale ed in particolare il respiratore, preferendo così abbreviare il corso della propria vita piuttosto che affrontare i continui peggioramenti causa, per lui e per chi lo circondava, di sofferente fisiche e psichiche.

Il secondo caso, che tutti ricorderemo bene anche per prossimità territoriale riguardava Eluana Englaro.

Eluana, giovane donna indipendente, ebbe un incidente stradale che la ridusse in stato vegetativo e incosciente. La giovane età e l’assenza di patologie pregresse le consentivano una sopravvivenza potenzialmente molto lunga. Il padre, suo tutore legale, forte delle inclinazioni a lui ben note della figlia inizia un percorso legale lungo e tortuoso con il fine di poter sospendere i trattamenti di alimentazione e idratazione forzata.

Per la verità la vicenda Englaro non era isolata, ma si collocava all’interno di un filone giurisprudenziale in evoluzione.

Le problematiche erano diverse. Da una parte la qualificazione della idratazione e dell’alimentazione forzata quali trattamenti medici, posto che, per costituzione, nessuna persona può essere sottoposta a un trattamento medico senza il proprio consenso (in assenza di una apposita e pertanto eccezionale cornice normativa). Dall’altra parte però c’era il problema del consenso, visto lo stato di incoscienza e quindi uno stato di incapacità (legale o naturale) in cui diventa difficile capire a chi spetti esprimere le volontà e quali ne siano i confini.

La vicenda giunse in Cassazione dove, non senza polemiche, fu autorizzata la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata, rendendo però evidente l’urgenza di una normativa ad hoc che evitasse la sofferenza del sostenere una lotta giudiziaria accanto alla sofferenza di veder soffrire un proprio caro.

La legge 219 parla esplicitamente di Disposizioni Anticipate di Trattamento che sono comunemente chiamate “Testamento Biologico”. Per diverse ragioni entrambe le definizioni sono imprecise.

Lo è sicuramente il concetto di Testamento Biologico, visto che per testamento si intende l’atto destinato a valere dopo la morte e non nella fase finale della vita.

Anche il concetto di Disposizione però sembra forzato. Se infatti leggiamo bene la normativa sembra inappropriato parlare di Disposizione, mentre sarebbe stato più in linea con il provvedimento utilizzare il termine Indicazione o, comunque un termine che lasciasse intendere un qualcosa di meno vincolante di una disposizione.

Per comprendere cosa intendo bisogna dare uno sguardo d’insieme alla normativa della 219 fin dal suo titolo e dalla sua struttura.

La normativa si preoccupa prima di tutto di disegnare un percorso più consapevole nella dinamica tra il medico ed il paziente nel definire un percorso di cure condiviso. La prima parte della legge è infatti incentrata sul tema del consenso informato.

Anche le diposizioni anticipate di trattamento presuppongono che prima di affrontarne la redazione il paziente/ disponente si sia confrontato con il medico dal quale dovrebbe aver ricevuto indicazioni sulle cure, sul loro esito, sull’evoluzione della malattia e su come gestire anche la fase terminale o l’aggravarsi della stessa. Solo di fronte a un percorso chiaro nella mente del paziente (e può esserlo solo dopo essersi consultato con il medico) il paziente può dettare una volontà precisa e consapevole.

Veniamo al profilo pratico prima di affrontare ancora alcune questioni teoriche.

Chi può esprimere le DAT ?

Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. Qualcuno ritiene che questa disposizione sia limitativa perché legata ad un elemento formale come la maggiore età e non alla maturità e consapevolezza di se. Il problema se il minorenne possa o meno esprimere una volontà di auto-determinazione analoga alla DAT va ricompresa nell’ambito del consenso medico informato e dei trattamenti medici ai minori, ma non ha lo stesso trattamento dei maggiorenni.

In quali circostanze si esprime la DAT?

in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte.

Qui si pone un problema molto serio.

Le informazioni mediche sembrano essenziali per la validità o piena efficacia delle DAT. Il malato terminale o chi ha una malattia degenerativa si presume che stia già affrontando con l’aiuto del medico un percorso terapeutico. Il problema si pone in maniera più problematica per chi, sano a tutti gli effetti, intendesse esprimere una volontà generica del tipo “se mi succedesse qualcosa (?) preferisco essere lasciato andare piuttosto che rimanere in stato vegetativo o compromesso”.

Bisogna essere chiari. In altri ordinamenti (ad esempio alcuni stati degli USA) le DAT sono vincolanti per il medico. Quindi una qualsiasi volontà di non voler essere rianimato impone al medico, quale che sia la sua valutazione, di fermare la sua azione. Nel nostro ordinamento non è così. La legge prevede che il medico pur tenuto al rispetto delle DAT può disattenderle in tutto o in parte qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Se pertanto la norma viene letta nel suo complesso una volontà generica sarà facilmente disattesa perché lo spirito della legge è nel senso che le DAT si collocano in un rapporto dialettico medico – paziente dove non prevale sempre la volontà del paziente.

In questo senso appare difficile che l’evento genericamente immaginato, spesso traumatico come ad esempio un incidente stradale, e una DAT altrettanto generica possa fermare un intervento medico in pronto soccorso.

Nel mio immaginario posso pensare, al limite, che se un soggetto sano ha una certa familiarità con una determinata patologia, penso ad esempio ad un aneurisma. Possa immaginare che abbia sentito un medico ( ovviamente non curante perché parliamo di un soggetto sano) e voglia dettare una DAT per quella circostanza, ma mi sembra un caso abbastanza isolato.

Traendo spunto dalla vicenda di Eluana Englaro una eventuale DAT generica potrà avere la funzione di poter ricostruire la “visione della vita” del soggetto e facilitare alcune scelte esiziali (sospensione cure, alimentazione etc).

Cosa si esprime con le DAT?

Si esprimono volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari.

Uno degli snodi cruciali del dibattito precedente però riguardava proprio cosa dovesse intendersi per trattamento sanitario. In particolare i trattamenti di alimentazione e idratazione forzata da taluni venivano ricompresi nell’ambito dei trattamenti sanitari, mentre per altri erano definiti con il più tenue concetto di trattamenti di sostegno vitale.

Perché definire questi trattamenti è così importante ?

Prima di tutto perché il loro rifiuto o la loro sospensione/interruzione porta il paziente alla morte in breve tempo e questa sottile distinzione era finalizzata a sostenere che il trattamento sanitario in quanto tale si potesse rifiutare mentre il trattamento di sostegno vitale no.

Importante, pertanto, spostarsi nella legge all’art. 1 dove si parla del “consenso informato” e dove viene specificata la posizione del paziente. Egli ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico. La legge oggi precisa esplicitamente che sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale. Se il paziente li rifiuta il medico gli prospetta le conseguenze.

Quindi, al di là del rifiuto all’accanimento terapeutico, che peraltro la legge stessa scoraggia, le DAT possono contenere il rifiuto ad interventi di rianimazione e persino all’alimentazione e all’idratazione forzata nel momento in cui il paziente, sentito il medico, lo ritiene opportuno.

Va da se che una tale volontà, in determinate circostanze, determina il destino del disponente che, impossibilitato ad alimentarsi in altro modo perirà per mancanza di idratazione ed alimentazione.

Nelle DAT si può indicare una persona di fiducia(«fiduciario»), che faccia le veci e rappresenti il malato nelle relazioni con il medico. Il fiduciario non è obbligatorio, non è obbligato ad accettare e può sempre essere revocato. È una figura diversa dall’Amministratore di Sostegno che ha un compito più amministrativo e pertanto può tranquillamente essere un soggetto estraneo al disponente. Il fiduciario invece è colui che si fa portatore, al posto del disponente, delle volontà intime di questi nel momento in cui non potrà più esprimersi. Quindi, alla fine, è anche colui che, al posto del malato, esprimerà la volontà di interrompere alimentazione e idratazione quando il disponente non potrà più farlo autonomamente.

Vorrei sottolineare che la libertà del paziente di rifiutare alimentazione e idratazione e il conseguente comportamento medico non sono universalmente accettati sotto il profilo etico. Senza entrare nel merito si consideri in paragrafo n. 2279 del Catechismo della Chiesa Cattolica “Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte” e ancora il paragrafo 2277 “Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana”.

Possono essere disattese le DAT ?

Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, ma possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Va sottolineato quindi che tanto più le DAT sono consapevolmente assunte (con l’ausilio del medico) tanto meno saranno disattese.

Nel caso di conflitto tra il fiduciario interverrà il Giudice Tutelare

Che Forma devono avere le DAT ?

Le Dat possono essere fatte con il notaio: Le DAT infatti devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata.

Si può fare a meno del notaio e in questo caso le DAT sono redatte per scrittura privata direttamente dal Disponente e sono consegnata personalmente dal disponente steso presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza.

Le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT nelle forme appropriate, la legge prevede una forma straordinaria: il medico raccoglierà una dichiarazione verbale o videoregistrata, con l'assistenza di due testimoni.

Per le DAT non si pagano tasse (esenti dall'obbligo di registrazione, dall'imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa).

Dove sono conservate le DAT e come possono essere conosciute in caso di emergenza?

La legge 219 prevede una varietà di forme e di soggetti che raccolgono le DAT (notaio, ufficiale stato civile, medico) .

Il registro dove le DAT sono raccolte è unitario e la Banca dati DAT è tenuta dal Ministero della Salute che, per gli atti notarili, è gestito in cooperazione con la Rete Unitaria del Notariato (la Rete informatica dei Notai).

Il disponente deve scegliere se vuole mettere nel registro solo le informazioni di massima o anche la copia delle sue DAT. Se sceglie di non mettere la copia indicherà dove sono conservate.

Le informazioni ed eventualmente le DAT possono essere viste sul Registro solo dal disponente, dal fiduciario (fino quando è in carica) e dal medico curante.

Non dimentichiamoci delle finalità del registro e di quello che abbiamo detto prima. Le DAT nascono per particolari esigenze in un contesto di cura e nell’ambito della piena consapevolezza del percorso di cura del Disponente. IL sistema quindi presuppone che ci sia il medico.

Tornando al problema accennato precedentemente, quello delle DAT del soggetto sano, va sottolineato che in una fase emergenziale (es. incidente), sarà difficile che il registro venga consultato e le DAT emergano.

Nel disponente senza patologie si presuppone l’assenza del medico, figura che eventualmente sarà stata sentita, ma che non seguirà il disponente in una particolare terapia e il fiduciante potrebbe non essere così reattivo.

Siamo nella prima fase applicativa è quindi abbastanza normale che in questa fase l’utilizzo della Banca Dati presente qualche problematica segnalata dai medici.

 

Il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia

All’interno di ciascuno di questi due concetti vi sono varie sfumature, ognuna con una sua importanza.

Semplificando possiamo dire che il suicidio presuppone l’opera del “disponente”, mentre l’eutanasia presuppone l’opera di un terzo (generalmente un medico), entrambe finalizzate a provocare la morte.

Facciamo un piccolo quadro normativo per comprendere meglio di cosa stiamo parlando.

Il nostro ordinamento non si occupa direttamente del suicidio medicalmente assistito.

Il codice penale però prevede però all’art. 580 il reato di Istigazione al suicidio: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito…..”.

La norma non prevede eccezioni e pertanto, sino a poco tempo fa, rappresentava un vero e proprio muro di fronte all’operato del medico che volesse assistere il paziente, anche terminale, intenzionato ad abbreviare le proprie sofferenze.

La tematica etica interessava da tempo la politica che tuttavia era ed è tuttora incapace di prendere qualsiasi decisione. Pertanto come accaduto nei casi Englaro e Welby, l’accelerazione è arrivata per via giudiziale.

Mi sia concessa un piccola digressione.

Molti ordinamenti non considerano l’aiuto al suicidio un reato. Nella vicina Svizzera esistono strutture apposite che assistono il paziente determinato a porre fine alla propria vita.

Lo stesso suicidio non è universalmente riconosciuto come una condotta antigiuridica e necessariamente anti-etica.

Dobbiamo poi prendere atto che la nostra stessa cultura tende a colorare il suicidio di vari significati. Talvolta viene persino connotato da un significato eroico. Pensiamo alle figure di Socrate, a Catone l’Uticense, ai tanti guerrieri che preferirono darsi la morte piuttosto che finire nelle mani nel nemico, al tema letterario di Jacopo Ortis o il suicidio politico di Jan Palach per fare solo alcuni esempi. Pensiamo alla dimensione del suicidio rituale in Giappone dove fino al tardo ottocento (con punte novecentesche come la vicenda di Mishima testimonia) il Seppuku (chiamato anche Harakiri), suicidio rituale incasellato in una rigida procedura, era addirittura considerato un privilegio riservato alle caste nobili. Il suicida aveva addirittura un assistente (kaishakunin) deputato ad accorciare (seppure in maniera cruenta) le sofferenze dopo il compimento del gesto.

Questo non per fare una inutile apologia del suicidio, ma per sottolineare che pur nella generale riprovazione per il gesto, talvolta, su un piano etico le motivazioni vengono tenute in alta considerazione. Se si prova empatia per chi si toglie la vita per particolari motivazioni di alto carattere morale, come non provarla per chi vuole sottrarsi ad un dolore da cui non c’è via d’uscita ?

Anche se viviamo in un paese a maggioranza Cattolica i cui insegnamenti condannano fermamente qualsiasi ipotesi di suicidio (Catechismo Chiesa Cattolica punto 2280: “Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo”. Punto 2281 “Il suicidio è contrario all'amore del Dio vivente”. Punto 2282 “La cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale”) bisogna considerare che l’etica, in uno stato che si professa Laico non può essere esclusiva del mondo Cattolico e pertanto le motivazioni (la grande sofferenza, l’inesistenza della cura e della speranza di guarigione ad esempio) dovrebbero essere tenute in alta considerazione nella produzione legislativa visto che la norma non salvaguarda alcun altro interesse che quello della persona che esprime tale volontà.

Indubbiamente invece il nostro Codice civile ha una inconfondibile matrice fascista. Lo è per nascita in quanto viene promulgato in piena epoca fascista, sebbene nasca sulle ceneri di un codice di epoca liberale ottocentesca.

In un’ottica liberale l’individuo è al centro del mondo giuridico e le scelte individuali, quantomeno in linea di massima, riguardano lui stesso secondo un principio di libera autodeterminazione.

Nella filosofia che permea il codice penale l’ottica è del tutto diversa perché prevale l’idea del soggetto come parte di una collettività. Se quindi sei parte di una comunità, la tua vita è importante per la comunità (in quanto lavoratore, in quanto soldato etc etc.). Da ciò discende che le scelte riguardanti la tua stessa vita ti appartengono solo se non confliggono con le superiori esigenze dello stato.

Nel Codice penale il suicidio non è punito nemmeno quando si ferma al puro tentativo non riuscito. Tuttavia ciò che contorna l’attività e le intenzioni del suicida è caratterizzato dall’antigiuridicità, quali che siano le condizioni dell’aspirante suicida.

È probabile che nelle intenzioni del legislatore di quegli anni la fattispecie penale fosse veramente di nicchia, più simbolica che pratica. Negli annali di giurisprudenza i casi sono pochissimi.

Oggi il problema è anche di ordine pratico. Le problematiche degli anni Trenta sono differenti rispetto a quelle di quasi cent’anni dopo. Negli anni Trenta il problema medico era di cercare di far sopravvivere il più possibile a fronte di una età media che si attestava ben sotto cinquant’anni. Anche le malattie degenerative ponevano minori interrogativi perché davano una aspettativa di vita ridottissima.

Il caso giudiziario che ha portato ad una sostanziale modifica dell’ordinamento è legato an nome di Dj Fabo ed ha coinvolto il parlamentare Marco Cappato.

Dj Fabo in esito ad un incidente si trovava in una condizione fisica fortemente invalidante essendo rimasto cieco e tetraplegico e con una possibilità di movimento limitatissima. La condizione provocava a Dj Fabo enormi sofferenze sia fisiche che psichiche tanto da far nascere in lui la forte determinazione a porre fine alla propria esistenza.

Dopo aver provato in altri modi (la legge 219 non era ancora in vigore)  Marco Cappato accompagnò DJ Fabo in Svizzera consentendogli il suicidio assistito. Al rientro in Italia Cappato, conferendo alla vicenda ulteriore eco mediatico, si è costituito all’autorità giudiziaria.

I giudici rimisero la questione alla Corte Costituzionale per valutare se la norma sul suicidio assistito fosse compatibile con la nostra costituzione.

Con la sentenza n. 242 del 2019, depositata il 22 novembre 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.”

Cosa significa questa sentenza ? Possiamo dire che il suicidio assistito è legittimo ?

E’ difficile dare una risposta. Il quadro normativo è confuso. Possiamo dire che a certe condizioni l’assistenza medica al suicidio non è punibile, ma la Corte Costituzionale non fa le leggi e quindi al momento esiste un vuoto normativo piuttosto complesso.

Nei casi di cronaca successiva questo aspetto è evidente. Esiste oggi il caso di Mario, nelle Marche di richiesta di suicidio medicalmente assistito. In buona sostanza l’ASL precisava che anche se c’è stata la sentenza della Corte Costituzionale, l’esistenza di una sentenza che limita la portata di una norma penale non è da sola in grado di generale un vero e proprio diritto del malato di essere assistito dalla sanità pubblica nel perseguire i propri intenti. Anche qui la vicenda prosegue in via giudiziale nell’inerzia del legislatore.

Al momento è in discussione un provvedimento di legge che dovrebbe recepire le indicazioni della Corte. Come tutte le leggi sarà frutto di un compromesso tra varie istanze. Il rischio però è che le maglie della legge siano alla fine eccessivamente strette tanto da rendere esistente un diritto solo sulla carta e inapplicabile nella pratica.

Anche per l’eutanasia il quadro normativo è abbastanza scarno. La legge penale punisce l’omicidio del consenziente.

In questo quadro normativo ogni forma di eutanasia è coperta dalla norma penale, anche nei confronti del malato terminale o del malato di malattia degenerativa in stato avanzatissimo.

La questione è stata recentemente sollevata in una iniziativa di referendum volta all’abrogazione integrale della norma penale che ho citato prima.

La Corte di Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum ha rigettato la domanda sulla base della considerazione che l’abrogazione totale avrebbe aperto la strada a un vuoto “eccessivo” perché non limitava la liceità della pratica a quei casi “estremi” su cui può esserci una larga condivisione (in pratica i medesimi della sentenza Cappato).

Questa considerazione ha trovato nell’opinione pubblica plausi e critiche. Critiche perché è sembrato un passo indietro rispetto alle aperture della Corte Costituzionale. Plausi perché  il vuoto normativo sommato ad una sostanziale inconcludenza del legislatore poteva aprire a scenari almeno potenzialmente inquietanti. Dico almeno potenzialmente perché stiamo parlando di norme che puniscono comportamenti assai rari nella cronaca e solo una argomentazione ingenua o fallace possono sostenere che in mancanza della norma il fenomeno potrebbe dilagare.

A chiusura di questo intervento e prima di affrontare l’aspetto etico del fine vita vorrei sottolineare un paio di questioni metodologiche.

Quale che sia l’idea con cui si entra nel dibattito e quale che sia l’idea che si matura durante il dibattito bisogna stare bene attenti nel non farsi trascinare da argomentazioni errate.

Non pensiamo in nessun modo che la forte spinta verso una regolamentazione e quindi una ammissione più ampia di DAT, suicidio medicalmente assistito ed eventualmente eutanasia sia il frutto di una società cinica e disinteressata alla vita umana a confronto di un ideale passato in cui si coltivavano i valori veri della vita.

Il confronto tra l’oggi decadente e il passato glorioso attraversa tutte le epoche ma in questa materia nasconde un vero e proprio errore.

Non c’è un’epoca che ha un attaccamento alla vita in quanto tale maggiore di quella di oggi. Questo non accade perché i contemporanei siano più “buoni” degli antichi, ma perché la società ha mutato alcune condizioni di base. Il discorso sarebbe molto lungo, ma possiamo fare alcuni esempi per capire meglio cosa intendo.

Intanto il cambiamento più evidente è l’aspettativa di vita. Le tabelle statistiche della vita media sono chiare in proposito e sono influenzate  sia da un minor impatto della mortalità infantile che era una vera e propria piaga del passato, che dal raggiungimento di età venerande non solo per pochi eletti.

E’ opinione comune, e probabilmente corrisponde anche a una sensazione diffusa in chi è adulto, che il concetto di “anziano” e, come tale, prossimo alla morte è venuto mutando. Verrebbe da scherzare, ma chiamare anziano un settantenne espone al rischio di esser preso a male parole. Un tempo certamente si moriva più giovani e si viveva in un ambiente che aveva consuetudine con la morte nel quotidiano sin dalla tenera età. Il rapporto inverso tra la mortalità infantile e la natalità la dice lunga sull’atteggiamento dei nostri avi di fronte alla morte dei fanciulli. Fare molti figli era l’unico rimedio alla mortalità infantile e giovanile. Pensiamo che al Manzoni nell’800, sopravvissero solo due dei dieci figli che ebbe.

Oggi ci turba leggere di morti violente sui giornali e bastano poche notizie in più di cronaca nera per farci pensare ad una esplosione di violenza. Anche in questo caso se solo compariamo la statistica delle morti violente a inizio 900 con quelle attuali a fronte di una popolazione inferiore possiamo notare come la nostra maggiore impressionabilità dipende da una (fortunatamente) minore consuetudine alla violenza. Le società che ci hanno preceduto sono state tanto violente che, nell’antichità più remota, l’omicidio non era nemmeno considerato una cosa di cui dovesse occuparsi l’autorità se non quando proprio non poteva farne a meno. Nelle civiltà passate la riparazione dell’omicidio era considerata più che altro un doveroso fatto privato lasciato alla vendetta dei parenti prossimi. Visto che poi questo metodo portava a disordini già i Longobardi, come segno di civiltà, introdussero l’istituto del Guidrigildo ovvero l’offerta per placare la faida di una somma predeterminata in funzione del “valore” dell’uomo ucciso.

Per tutto il medioevo e per parte dell’epoca successiva si tendeva a giustificare l’azione omicida per i più svariati motivi. Lo stesso non può dirsi ad esempio per il furto, mai giustificato.

Una simile visione, che oggi ci ripugnerebbe e questo deve farci pensare. Al di là dell’atteggiamento consumistico dei nostri tempi, la sensibilità e la volontà di preservare la vita nostra e dei nostri cari non rassegnandoci alla loro perdita se non quando proprio non si può far nulla è sicuramente maggiore del passato e ciò deve essere ben presente nel discutere di questi argomenti.