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DAL TESTAMENTO BIOLOGICO AL REFERENDUM. RIFLESSIONI SUL FINE VITA

DAL TESTAMENTO BIOLOGICO AL REFERENDUM. RIFLESSIONI SUL FINE VITA

DAL TESTAMENTO BIOLOGICO AL REFERENDUM. RIFLESSIONI SUL FINE VITA

 

 

Il presente contributo sintetizza il contenuto di un mio breve intervento sul tema ad una serata Organizzata dal Rotary Club Erba Laghi con il contributo del Presidente dott. Cristian Paradiso, l’Avv. Massimo Rossi di Milano in rappresentanza dell’associazione Luca Coscioni e padre Raffaele Finardi quale voce del mondo Cattolico.

 

 

introduzione

Quando parliamo di “fine vita” parliamo in realtà di un fenomeno molto complesso.

In ogni epoca, da un punto di vista etico, religioso e anche giuridico, l’uomo si è sempre preoccupato della fase finale della vita, non nel senso della senilità, quanto proprio del momento in cui si sa che la morte è ormai certa e prossima.

Le varie culture, con differenze di epoca e di luogo, hanno spesso codificato il comportamento da tenere e le “cose da fare” in questo particolare momento.

In epoca moderna però la gestione di questo momento ha assunto contorni differenti e si è presentato con problemi e questioni nuove.

A cosa è dovuto questo cambiamento ? Gli aspetti sono tanti che distinguono l’ultimo scorcio del XX secolo e il primo scorcio del XXI rispetto alle epoche precedenti.

Nelle epoche passate la sensazione di precarietà della vita era sicuramente maggiore di oggi. Miglioramento della qualità della vita, diffusione di standard di vita e di igiene differenti, soggezione a eventi bellici, mortalità infantile, e soprattutto i notevoli progressi delle scienze mediche e farmaceutiche sono alcuni degli elementi che hanno fatto crescere la vita media senza confronto rispetto alle epoche precedenti. A tale proposito basta pensare cosa comportava all’inizio del secolo scorso un parto problematico o una banale (per noi) appendicite il cui esito fatale era pressoché scontato (prima dell’intervento per imperizia dei chirurghi privi di strumenti e dopo l’intervento per le setticemie che decimavano anche coloro che venivano curati).

Il progresso di medicina e farmaceutica ha reso, fortunatamente, molte patologie curabili e, di fronte a particolari circostanze la perizia dei medici consente di mantenere in vita, talvolta per lunghissimo tempo, persone colpite da patologie particolarmente invalidanti o particolarmente dolorose che, in epoche passate, non sarebbero certamente sopravvissute se non per brevissimi periodi.

E’ chiarissimo che tutto questo ha un effetto rassicurante sulle nostre vite e altrettanto chiaro che tutti noi confidiamo che questi progressi non si arrestino. Tuttavia questa grandissima capacità delle scienze mediche e farmaceutiche aprono a domande che forse prima erano lasciate solo alla speculazione filosofica ma che ora hanno una assoluta rilevanza pratica.

La preservazione della vita deve porsi il problema della qualità della vita ? E’ etico continuare a curare persone che non hanno più coscienza di se stesse e non l’avranno mai più, oppure persone che sopravvivono pur a fronte di dolori e disagi psichici e fisici insopportabili ?

Cerchiamo di inquadrare il problema nell’ambito giuridico prima di passare alla dimensione etica propria del dibattito che seguirà.

Inquadramento giuridico

Con il progredire della scienza sono emersi alcuni problemi di natura giuridica che hanno trovato una loro soluzione creando, in Italia,  un quadro ancora oggi variabile.

La dimensione giuridica del “fine vita” si snoda in un percorso formato (potenzialmente) da possibili passaggi  che in maniera un po’ provocatoria potremmo mettere in “progressione etica”:

  • La gestione delle cure e le cure palliative;
  • La validità e i confini delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
  • La tematica del suicidio assistito o aiuto al suicidio
  • La tematica dell’eutanasia.

 

Le cure Palliative e la terapia del dolore

Spesso nella lingua italiana il termine “palliativo” è utilizzato nel senso di superfluo o addirittura inutile. Questa accezione sicuramente è fuorviante.

Si intendono per palliative le cure medico / farmacologiche che non vengono somministrate per indurre una guarigione o un miglioramento nella malattia, ma che agiscono per alleviarne e renderne maggiormente tollerabili i sintomi.

Le cure palliative nascono dalla prassi ospedaliera che, come missione principale ha quella di curare il malato, ma anche di alleviarne le sofferenze.

La priorità è sempre stata la cura e proprio per questo il ricorso alle cure palliative in passato non è stato uniforme sul territorio nazionale. Dagli anni novanta del secolo scorso si è cominciato a riflettere sulla necessità che le cure palliative diventassero un qualcosa da garantire al malato che non avesse alcuna speranza di guarigione.

La normativa di riferimento, quindi, non ha introdotto le cure palliative, ma si è limitata a incentivarne la diffusione a livello burocratico e a livello finanziario favorendo la nascita e lo sviluppo, tra l’altro delle strutture Hospice e delle cure palliative domiciliari.

Su un piano puramente etico il ricorso e il favore per le cure palliative trovano un pressoché unanime sostegno, sicuramente maggiore rispetto a DAT, suicidio assistito e eutanasia.

Nel catechismo della Chiesa Cattolica, all’interno dei paragrafi dedicati al 5° comandamento (Non uccidere) il punto 2279 recita “L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.”.

Il passaggio è particolarmente importante e testimonia la profonda riflessione interculturale presente su questo tema. La premessa ci dice moltissimo sulla reale portata dell’inciso Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

Tra le cure palliative merita infatti particolare attenzione la sedazione palliativa profonda e continua.

Di cosa si tratta ? Il termine palliativo ci circoscrive la finalità: non serve per curare ma per alleviare. Il termine profondo avvicina il concetto di sedazione a quello di anestesia, mentre il termine continuo significa che la sedazione sarà  (tendenzialmente) ininterrotta fino al sopraggiungere della morte.

Si tratta quindi di un trattamento medico in base al quale il paziente, afflitto dalla sofferenza viene sedato sino a renderlo incosciente in un sonno ininterrotto fino al sopraggiungere della morte.

In un fisico debilitato dalla malattia il farmaco ha inevitabilmente l’effetto di abbreviare la durata della vita umana, ma ciò è eticamente tollerabile anche per l’etica Cattolica se l’intenzione del medico è quella di alleviare la sofferenza e non quella di provocare la morte (da notare che il punto citato è nel sottocapitolo del Catechismo dedicato all’eutanasia, pratica considerata non ammissibile in maniera molto chiara anche nelle ultime Udienze di Papa Francesco).

Questo trattamento palliativo si colloca pertanto in un’area di confine in cui anche molte tra le posizioni eticamente contrapposte tendono a trovare una composizione.

E’ sicuramente importante sottolineare questo ultimo aspetto non dimenticando tuttavia che le cure palliative ineriscono soltanto ad una parte delle problematiche che, più da vicino e più spesso, interessano il fine vita.

Le cure palliative rappresentano infatti un sollievo per coloro che versano nello stadio terminale di una malattia che comporta particolari livelli di sofferenza. Appare invece insufficiente agli occhi di chi vive la diversa problematica della malattia degenerativa invalidante oppure i postumi di eventi traumatici fortemente invalidanti. Il riferimento è evidentemente ai malati di SLA oppure a coloro che, dopo un incidente si trovano in stato di tetraplegia con le sofferenze fisiche connesse e le sofferenze psichiche, talvolta ancora più importanti di quelle fisiche, di vedersi totalmente dipendenti da qualcuno negli occhi del quale si vede solo pena e sofferenza.

Le Disposizioni anticipate di Trattamento

Le DAT vengono introdotte con la legge 22 dicembre 2017 n. 219.

L’introduzione delle DAT è stata il frutto, come purtroppo spesso accade in Italia, di un percorso segnato da alcuni casi che hanno particolarmente colpito l’opinione pubblica e hanno avuto un percorso giudiziario tale da obbligare il Parlamento a prendere finalmente una posizione.

Il primo caso riguardava la vicenda di Piergiorgio Welby che, colpito da una malattia progressiva (Distrofia muscolare), decise, con il supporto attivo della moglie di rifiutare i trattamenti (medici) di supporto vitale ed in particolare il respiratore, preferendo così abbreviare il corso della propria vita piuttosto che affrontare i continui peggioramenti causa, per lui e per chi lo circondava, di sofferente fisiche e psichiche.

Il secondo caso, che tutti ricorderemo bene anche per prossimità territoriale riguardava Eluana Englaro.

Eluana, giovane donna indipendente, ebbe un incidente stradale che la ridusse in stato vegetativo e incosciente. La giovane età e l’assenza di patologie pregresse le consentivano una sopravvivenza potenzialmente molto lunga. Il padre, suo tutore legale, forte delle inclinazioni a lui ben note della figlia inizia un percorso legale lungo e tortuoso con il fine di poter sospendere i trattamenti di alimentazione e idratazione forzata.

Per la verità la vicenda Englaro non era isolata, ma si collocava all’interno di un filone giurisprudenziale in evoluzione.

Le problematiche erano diverse. Da una parte la qualificazione della idratazione e dell’alimentazione forzata quali trattamenti medici, posto che, per costituzione, nessuna persona può essere sottoposta a un trattamento medico senza il proprio consenso (in assenza di una apposita e pertanto eccezionale cornice normativa). Dall’altra parte però c’era il problema del consenso, visto lo stato di incoscienza e quindi uno stato di incapacità (legale o naturale) in cui diventa difficile capire a chi spetti esprimere le volontà e quali ne siano i confini.

La vicenda giunse in Cassazione dove, non senza polemiche, fu autorizzata la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata, rendendo però evidente l’urgenza di una normativa ad hoc che evitasse la sofferenza del sostenere una lotta giudiziaria accanto alla sofferenza di veder soffrire un proprio caro.

La legge 219 parla esplicitamente di Disposizioni Anticipate di Trattamento che sono comunemente chiamate “Testamento Biologico”. Per diverse ragioni entrambe le definizioni sono imprecise.

Lo è sicuramente il concetto di Testamento Biologico, visto che per testamento si intende l’atto destinato a valere dopo la morte e non nella fase finale della vita.

Anche il concetto di Disposizione però sembra forzato. Se infatti leggiamo bene la normativa sembra inappropriato parlare di Disposizione, mentre sarebbe stato più in linea con il provvedimento utilizzare il termine Indicazione o, comunque un termine che lasciasse intendere un qualcosa di meno vincolante di una disposizione.

Per comprendere cosa intendo bisogna dare uno sguardo d’insieme alla normativa della 219 fin dal suo titolo e dalla sua struttura.

La normativa si preoccupa prima di tutto di disegnare un percorso più consapevole nella dinamica tra il medico ed il paziente nel definire un percorso di cure condiviso. La prima parte della legge è infatti incentrata sul tema del consenso informato.

Anche le diposizioni anticipate di trattamento presuppongono che prima di affrontarne la redazione il paziente/ disponente si sia confrontato con il medico dal quale dovrebbe aver ricevuto indicazioni sulle cure, sul loro esito, sull’evoluzione della malattia e su come gestire anche la fase terminale o l’aggravarsi della stessa. Solo di fronte a un percorso chiaro nella mente del paziente (e può esserlo solo dopo essersi consultato con il medico) il paziente può dettare una volontà precisa e consapevole.

Veniamo al profilo pratico prima di affrontare ancora alcune questioni teoriche.

Chi può esprimere le DAT ?

Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. Qualcuno ritiene che questa disposizione sia limitativa perché legata ad un elemento formale come la maggiore età e non alla maturità e consapevolezza di se. Il problema se il minorenne possa o meno esprimere una volontà di auto-determinazione analoga alla DAT va ricompresa nell’ambito del consenso medico informato e dei trattamenti medici ai minori, ma non ha lo stesso trattamento dei maggiorenni.

In quali circostanze si esprime la DAT?

in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte.

Qui si pone un problema molto serio.

Le informazioni mediche sembrano essenziali per la validità o piena efficacia delle DAT. Il malato terminale o chi ha una malattia degenerativa si presume che stia già affrontando con l’aiuto del medico un percorso terapeutico. Il problema si pone in maniera più problematica per chi, sano a tutti gli effetti, intendesse esprimere una volontà generica del tipo “se mi succedesse qualcosa (?) preferisco essere lasciato andare piuttosto che rimanere in stato vegetativo o compromesso”.

Bisogna essere chiari. In altri ordinamenti (ad esempio alcuni stati degli USA) le DAT sono vincolanti per il medico. Quindi una qualsiasi volontà di non voler essere rianimato impone al medico, quale che sia la sua valutazione, di fermare la sua azione. Nel nostro ordinamento non è così. La legge prevede che il medico pur tenuto al rispetto delle DAT può disattenderle in tutto o in parte qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Se pertanto la norma viene letta nel suo complesso una volontà generica sarà facilmente disattesa perché lo spirito della legge è nel senso che le DAT si collocano in un rapporto dialettico medico – paziente dove non prevale sempre la volontà del paziente.

In questo senso appare difficile che l’evento genericamente immaginato, spesso traumatico come ad esempio un incidente stradale, e una DAT altrettanto generica possa fermare un intervento medico in pronto soccorso.

Nel mio immaginario posso pensare, al limite, che se un soggetto sano ha una certa familiarità con una determinata patologia, penso ad esempio ad un aneurisma. Possa immaginare che abbia sentito un medico ( ovviamente non curante perché parliamo di un soggetto sano) e voglia dettare una DAT per quella circostanza, ma mi sembra un caso abbastanza isolato.

Traendo spunto dalla vicenda di Eluana Englaro una eventuale DAT generica potrà avere la funzione di poter ricostruire la “visione della vita” del soggetto e facilitare alcune scelte esiziali (sospensione cure, alimentazione etc).

Cosa si esprime con le DAT?

Si esprimono volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari.

Uno degli snodi cruciali del dibattito precedente però riguardava proprio cosa dovesse intendersi per trattamento sanitario. In particolare i trattamenti di alimentazione e idratazione forzata da taluni venivano ricompresi nell’ambito dei trattamenti sanitari, mentre per altri erano definiti con il più tenue concetto di trattamenti di sostegno vitale.

Perché definire questi trattamenti è così importante ?

Prima di tutto perché il loro rifiuto o la loro sospensione/interruzione porta il paziente alla morte in breve tempo e questa sottile distinzione era finalizzata a sostenere che il trattamento sanitario in quanto tale si potesse rifiutare mentre il trattamento di sostegno vitale no.

Importante, pertanto, spostarsi nella legge all’art. 1 dove si parla del “consenso informato” e dove viene specificata la posizione del paziente. Egli ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico. La legge oggi precisa esplicitamente che sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale. Se il paziente li rifiuta il medico gli prospetta le conseguenze.

Quindi, al di là del rifiuto all’accanimento terapeutico, che peraltro la legge stessa scoraggia, le DAT possono contenere il rifiuto ad interventi di rianimazione e persino all’alimentazione e all’idratazione forzata nel momento in cui il paziente, sentito il medico, lo ritiene opportuno.

Va da se che una tale volontà, in determinate circostanze, determina il destino del disponente che, impossibilitato ad alimentarsi in altro modo perirà per mancanza di idratazione ed alimentazione.

Nelle DAT si può indicare una persona di fiducia(«fiduciario»), che faccia le veci e rappresenti il malato nelle relazioni con il medico. Il fiduciario non è obbligatorio, non è obbligato ad accettare e può sempre essere revocato. È una figura diversa dall’Amministratore di Sostegno che ha un compito più amministrativo e pertanto può tranquillamente essere un soggetto estraneo al disponente. Il fiduciario invece è colui che si fa portatore, al posto del disponente, delle volontà intime di questi nel momento in cui non potrà più esprimersi. Quindi, alla fine, è anche colui che, al posto del malato, esprimerà la volontà di interrompere alimentazione e idratazione quando il disponente non potrà più farlo autonomamente.

Vorrei sottolineare che la libertà del paziente di rifiutare alimentazione e idratazione e il conseguente comportamento medico non sono universalmente accettati sotto il profilo etico. Senza entrare nel merito si consideri in paragrafo n. 2279 del Catechismo della Chiesa Cattolica “Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte” e ancora il paragrafo 2277 “Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana”.

Possono essere disattese le DAT ?

Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, ma possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Va sottolineato quindi che tanto più le DAT sono consapevolmente assunte (con l’ausilio del medico) tanto meno saranno disattese.

Nel caso di conflitto tra il fiduciario interverrà il Giudice Tutelare

Che Forma devono avere le DAT ?

Le Dat possono essere fatte con il notaio: Le DAT infatti devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata.

Si può fare a meno del notaio e in questo caso le DAT sono redatte per scrittura privata direttamente dal Disponente e sono consegnata personalmente dal disponente steso presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza.

Le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT nelle forme appropriate, la legge prevede una forma straordinaria: il medico raccoglierà una dichiarazione verbale o videoregistrata, con l'assistenza di due testimoni.

Per le DAT non si pagano tasse (esenti dall'obbligo di registrazione, dall'imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa).

Dove sono conservate le DAT e come possono essere conosciute in caso di emergenza?

La legge 219 prevede una varietà di forme e di soggetti che raccolgono le DAT (notaio, ufficiale stato civile, medico) .

Il registro dove le DAT sono raccolte è unitario e la Banca dati DAT è tenuta dal Ministero della Salute che, per gli atti notarili, è gestito in cooperazione con la Rete Unitaria del Notariato (la Rete informatica dei Notai).

Il disponente deve scegliere se vuole mettere nel registro solo le informazioni di massima o anche la copia delle sue DAT. Se sceglie di non mettere la copia indicherà dove sono conservate.

Le informazioni ed eventualmente le DAT possono essere viste sul Registro solo dal disponente, dal fiduciario (fino quando è in carica) e dal medico curante.

Non dimentichiamoci delle finalità del registro e di quello che abbiamo detto prima. Le DAT nascono per particolari esigenze in un contesto di cura e nell’ambito della piena consapevolezza del percorso di cura del Disponente. IL sistema quindi presuppone che ci sia il medico.

Tornando al problema accennato precedentemente, quello delle DAT del soggetto sano, va sottolineato che in una fase emergenziale (es. incidente), sarà difficile che il registro venga consultato e le DAT emergano.

Nel disponente senza patologie si presuppone l’assenza del medico, figura che eventualmente sarà stata sentita, ma che non seguirà il disponente in una particolare terapia e il fiduciante potrebbe non essere così reattivo.

Siamo nella prima fase applicativa è quindi abbastanza normale che in questa fase l’utilizzo della Banca Dati presente qualche problematica segnalata dai medici.

 

Il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia

All’interno di ciascuno di questi due concetti vi sono varie sfumature, ognuna con una sua importanza.

Semplificando possiamo dire che il suicidio presuppone l’opera del “disponente”, mentre l’eutanasia presuppone l’opera di un terzo (generalmente un medico), entrambe finalizzate a provocare la morte.

Facciamo un piccolo quadro normativo per comprendere meglio di cosa stiamo parlando.

Il nostro ordinamento non si occupa direttamente del suicidio medicalmente assistito.

Il codice penale però prevede però all’art. 580 il reato di Istigazione al suicidio: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito…..”.

La norma non prevede eccezioni e pertanto, sino a poco tempo fa, rappresentava un vero e proprio muro di fronte all’operato del medico che volesse assistere il paziente, anche terminale, intenzionato ad abbreviare le proprie sofferenze.

La tematica etica interessava da tempo la politica che tuttavia era ed è tuttora incapace di prendere qualsiasi decisione. Pertanto come accaduto nei casi Englaro e Welby, l’accelerazione è arrivata per via giudiziale.

Mi sia concessa un piccola digressione.

Molti ordinamenti non considerano l’aiuto al suicidio un reato. Nella vicina Svizzera esistono strutture apposite che assistono il paziente determinato a porre fine alla propria vita.

Lo stesso suicidio non è universalmente riconosciuto come una condotta antigiuridica e necessariamente anti-etica.

Dobbiamo poi prendere atto che la nostra stessa cultura tende a colorare il suicidio di vari significati. Talvolta viene persino connotato da un significato eroico. Pensiamo alle figure di Socrate, a Catone l’Uticense, ai tanti guerrieri che preferirono darsi la morte piuttosto che finire nelle mani nel nemico, al tema letterario di Jacopo Ortis o il suicidio politico di Jan Palach per fare solo alcuni esempi. Pensiamo alla dimensione del suicidio rituale in Giappone dove fino al tardo ottocento (con punte novecentesche come la vicenda di Mishima testimonia) il Seppuku (chiamato anche Harakiri), suicidio rituale incasellato in una rigida procedura, era addirittura considerato un privilegio riservato alle caste nobili. Il suicida aveva addirittura un assistente (kaishakunin) deputato ad accorciare (seppure in maniera cruenta) le sofferenze dopo il compimento del gesto.

Questo non per fare una inutile apologia del suicidio, ma per sottolineare che pur nella generale riprovazione per il gesto, talvolta, su un piano etico le motivazioni vengono tenute in alta considerazione. Se si prova empatia per chi si toglie la vita per particolari motivazioni di alto carattere morale, come non provarla per chi vuole sottrarsi ad un dolore da cui non c’è via d’uscita ?

Anche se viviamo in un paese a maggioranza Cattolica i cui insegnamenti condannano fermamente qualsiasi ipotesi di suicidio (Catechismo Chiesa Cattolica punto 2280: “Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo”. Punto 2281 “Il suicidio è contrario all'amore del Dio vivente”. Punto 2282 “La cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale”) bisogna considerare che l’etica, in uno stato che si professa Laico non può essere esclusiva del mondo Cattolico e pertanto le motivazioni (la grande sofferenza, l’inesistenza della cura e della speranza di guarigione ad esempio) dovrebbero essere tenute in alta considerazione nella produzione legislativa visto che la norma non salvaguarda alcun altro interesse che quello della persona che esprime tale volontà.

Indubbiamente invece il nostro Codice civile ha una inconfondibile matrice fascista. Lo è per nascita in quanto viene promulgato in piena epoca fascista, sebbene nasca sulle ceneri di un codice di epoca liberale ottocentesca.

In un’ottica liberale l’individuo è al centro del mondo giuridico e le scelte individuali, quantomeno in linea di massima, riguardano lui stesso secondo un principio di libera autodeterminazione.

Nella filosofia che permea il codice penale l’ottica è del tutto diversa perché prevale l’idea del soggetto come parte di una collettività. Se quindi sei parte di una comunità, la tua vita è importante per la comunità (in quanto lavoratore, in quanto soldato etc etc.). Da ciò discende che le scelte riguardanti la tua stessa vita ti appartengono solo se non confliggono con le superiori esigenze dello stato.

Nel Codice penale il suicidio non è punito nemmeno quando si ferma al puro tentativo non riuscito. Tuttavia ciò che contorna l’attività e le intenzioni del suicida è caratterizzato dall’antigiuridicità, quali che siano le condizioni dell’aspirante suicida.

È probabile che nelle intenzioni del legislatore di quegli anni la fattispecie penale fosse veramente di nicchia, più simbolica che pratica. Negli annali di giurisprudenza i casi sono pochissimi.

Oggi il problema è anche di ordine pratico. Le problematiche degli anni Trenta sono differenti rispetto a quelle di quasi cent’anni dopo. Negli anni Trenta il problema medico era di cercare di far sopravvivere il più possibile a fronte di una età media che si attestava ben sotto cinquant’anni. Anche le malattie degenerative ponevano minori interrogativi perché davano una aspettativa di vita ridottissima.

Il caso giudiziario che ha portato ad una sostanziale modifica dell’ordinamento è legato an nome di Dj Fabo ed ha coinvolto il parlamentare Marco Cappato.

Dj Fabo in esito ad un incidente si trovava in una condizione fisica fortemente invalidante essendo rimasto cieco e tetraplegico e con una possibilità di movimento limitatissima. La condizione provocava a Dj Fabo enormi sofferenze sia fisiche che psichiche tanto da far nascere in lui la forte determinazione a porre fine alla propria esistenza.

Dopo aver provato in altri modi (la legge 219 non era ancora in vigore)  Marco Cappato accompagnò DJ Fabo in Svizzera consentendogli il suicidio assistito. Al rientro in Italia Cappato, conferendo alla vicenda ulteriore eco mediatico, si è costituito all’autorità giudiziaria.

I giudici rimisero la questione alla Corte Costituzionale per valutare se la norma sul suicidio assistito fosse compatibile con la nostra costituzione.

Con la sentenza n. 242 del 2019, depositata il 22 novembre 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.”

Cosa significa questa sentenza ? Possiamo dire che il suicidio assistito è legittimo ?

E’ difficile dare una risposta. Il quadro normativo è confuso. Possiamo dire che a certe condizioni l’assistenza medica al suicidio non è punibile, ma la Corte Costituzionale non fa le leggi e quindi al momento esiste un vuoto normativo piuttosto complesso.

Nei casi di cronaca successiva questo aspetto è evidente. Esiste oggi il caso di Mario, nelle Marche di richiesta di suicidio medicalmente assistito. In buona sostanza l’ASL precisava che anche se c’è stata la sentenza della Corte Costituzionale, l’esistenza di una sentenza che limita la portata di una norma penale non è da sola in grado di generale un vero e proprio diritto del malato di essere assistito dalla sanità pubblica nel perseguire i propri intenti. Anche qui la vicenda prosegue in via giudiziale nell’inerzia del legislatore.

Al momento è in discussione un provvedimento di legge che dovrebbe recepire le indicazioni della Corte. Come tutte le leggi sarà frutto di un compromesso tra varie istanze. Il rischio però è che le maglie della legge siano alla fine eccessivamente strette tanto da rendere esistente un diritto solo sulla carta e inapplicabile nella pratica.

Anche per l’eutanasia il quadro normativo è abbastanza scarno. La legge penale punisce l’omicidio del consenziente.

In questo quadro normativo ogni forma di eutanasia è coperta dalla norma penale, anche nei confronti del malato terminale o del malato di malattia degenerativa in stato avanzatissimo.

La questione è stata recentemente sollevata in una iniziativa di referendum volta all’abrogazione integrale della norma penale che ho citato prima.

La Corte di Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum ha rigettato la domanda sulla base della considerazione che l’abrogazione totale avrebbe aperto la strada a un vuoto “eccessivo” perché non limitava la liceità della pratica a quei casi “estremi” su cui può esserci una larga condivisione (in pratica i medesimi della sentenza Cappato).

Questa considerazione ha trovato nell’opinione pubblica plausi e critiche. Critiche perché è sembrato un passo indietro rispetto alle aperture della Corte Costituzionale. Plausi perché  il vuoto normativo sommato ad una sostanziale inconcludenza del legislatore poteva aprire a scenari almeno potenzialmente inquietanti. Dico almeno potenzialmente perché stiamo parlando di norme che puniscono comportamenti assai rari nella cronaca e solo una argomentazione ingenua o fallace possono sostenere che in mancanza della norma il fenomeno potrebbe dilagare.

A chiusura di questo intervento e prima di affrontare l’aspetto etico del fine vita vorrei sottolineare un paio di questioni metodologiche.

Quale che sia l’idea con cui si entra nel dibattito e quale che sia l’idea che si matura durante il dibattito bisogna stare bene attenti nel non farsi trascinare da argomentazioni errate.

Non pensiamo in nessun modo che la forte spinta verso una regolamentazione e quindi una ammissione più ampia di DAT, suicidio medicalmente assistito ed eventualmente eutanasia sia il frutto di una società cinica e disinteressata alla vita umana a confronto di un ideale passato in cui si coltivavano i valori veri della vita.

Il confronto tra l’oggi decadente e il passato glorioso attraversa tutte le epoche ma in questa materia nasconde un vero e proprio errore.

Non c’è un’epoca che ha un attaccamento alla vita in quanto tale maggiore di quella di oggi. Questo non accade perché i contemporanei siano più “buoni” degli antichi, ma perché la società ha mutato alcune condizioni di base. Il discorso sarebbe molto lungo, ma possiamo fare alcuni esempi per capire meglio cosa intendo.

Intanto il cambiamento più evidente è l’aspettativa di vita. Le tabelle statistiche della vita media sono chiare in proposito e sono influenzate  sia da un minor impatto della mortalità infantile che era una vera e propria piaga del passato, che dal raggiungimento di età venerande non solo per pochi eletti.

E’ opinione comune, e probabilmente corrisponde anche a una sensazione diffusa in chi è adulto, che il concetto di “anziano” e, come tale, prossimo alla morte è venuto mutando. Verrebbe da scherzare, ma chiamare anziano un settantenne espone al rischio di esser preso a male parole. Un tempo certamente si moriva più giovani e si viveva in un ambiente che aveva consuetudine con la morte nel quotidiano sin dalla tenera età. Il rapporto inverso tra la mortalità infantile e la natalità la dice lunga sull’atteggiamento dei nostri avi di fronte alla morte dei fanciulli. Fare molti figli era l’unico rimedio alla mortalità infantile e giovanile. Pensiamo che al Manzoni nell’800, sopravvissero solo due dei dieci figli che ebbe.

Oggi ci turba leggere di morti violente sui giornali e bastano poche notizie in più di cronaca nera per farci pensare ad una esplosione di violenza. Anche in questo caso se solo compariamo la statistica delle morti violente a inizio 900 con quelle attuali a fronte di una popolazione inferiore possiamo notare come la nostra maggiore impressionabilità dipende da una (fortunatamente) minore consuetudine alla violenza. Le società che ci hanno preceduto sono state tanto violente che, nell’antichità più remota, l’omicidio non era nemmeno considerato una cosa di cui dovesse occuparsi l’autorità se non quando proprio non poteva farne a meno. Nelle civiltà passate la riparazione dell’omicidio era considerata più che altro un doveroso fatto privato lasciato alla vendetta dei parenti prossimi. Visto che poi questo metodo portava a disordini già i Longobardi, come segno di civiltà, introdussero l’istituto del Guidrigildo ovvero l’offerta per placare la faida di una somma predeterminata in funzione del “valore” dell’uomo ucciso.

Per tutto il medioevo e per parte dell’epoca successiva si tendeva a giustificare l’azione omicida per i più svariati motivi. Lo stesso non può dirsi ad esempio per il furto, mai giustificato.

Una simile visione, che oggi ci ripugnerebbe e questo deve farci pensare. Al di là dell’atteggiamento consumistico dei nostri tempi, la sensibilità e la volontà di preservare la vita nostra e dei nostri cari non rassegnandoci alla loro perdita se non quando proprio non si può far nulla è sicuramente maggiore del passato e ciò deve essere ben presente nel discutere di questi argomenti.

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Sospensione termini Prima casa

La sospensione dei termini "prima casa" per il Covid - 19

Il DL 8 aprile 2020, n. 23, all’art. 24 dispone che «1. I termini previsti dalla nota II-bis all'articolo 1 della Tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, nonché il termine previsto dall’art. 7 della legge 23 dicembre 1998, n 448, ai fini del riconoscimento del credito d'imposta per il riacquisto della prima casa, sono sospesi nel periodo compreso tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2020  31 marzo 2022».

A cosa si riferisce il D.L. ?

 

Si tratta di 4 differenti fattispecie di cui tre legate alla “prima casa”:

  • Il termine di diciotto mesi per trasferire la residenza nel Comune;
  • Il termine di un anno per l’acquisto di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale;
  • Il termine di un anno per alienare la “prima casa” preposseduta;

 

Si riporta il testo della nota II bis art. 1 Tariffa Parte prima D.P.R. 26-4-1986 n. 131

II-bis) 1. Ai fini dell'applicazione dell'aliquota del 2 per cento gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di case di abitazione non di lusso e agli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell'usufrutto, dell'uso e dell'abitazione relativi alle stesse, devono ricorrere le seguenti condizioni:

a) che l'immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l'acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall'acquisto la propria residenza (omissis)

b) che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare;

c) che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni di cui al presente articolo ovvero (omissis)

In caso di dichiarazione mendace o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute (omissis). Le predette disposizioni non si applicano nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall'alienazione dell'immobile acquistato con i benefici di cui al presente articolo, proceda all'acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale.

4-bis. L'aliquota del 2 per cento si applica anche agli atti di acquisto per i quali l'acquirente non soddisfa il requisito di cui alla lettera c) del comma 1 e per i quali i requisiti di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma si verificano senza tener conto dell'immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lettera c), a condizione che quest'ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell'atto. In mancanza di detta alienazione, all'atto di cui al periodo precedente si applica quanto previsto dal comma 4.”

 

ed uno al credito d’imposta ovvero il termine di un anno per acquisire un'altra “prima casa”.

 

Si riporta il testo dell’art. 7 della L. 23-12-1998 n. 448

1.  Ai contribuenti che provvedono ad acquisire, a qualsiasi titolo, entro un anno dall'alienazione dell'immobile per il quale si è fruito dell'aliquota agevolata prevista ai fini dell'imposta di registro e dell'imposta sul valore aggiunto per la prima casa, un'altra casa di abitazione non di lusso, in presenza delle condizioni di cui alla nota II-bis all'articolo 1 della tariffa, parte I, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, è attribuito un credito d'imposta (omissis)

La sospensione dei termini vale non solo per l’imposta di registro, ma anche per le altre imposte che rinviano alla Nota II-bis cit ovvero IVA, successione e donazione

 

COSA SUCCEDE CON LA SOSPENSIONE ? 

Qualora uno qualsiasi dei termini sopra detti scadesse tra il 23 febbraio ed il 31 dicembre 2020, esso riprenderebbe a decorrere dal 1° gennaio 2023, fermo restando il periodo di tempo già trascorso prima del 23 febbraio.

 

Facendo alcuni esempi

se il signor Tizio ha acquistato la sua "prima casa" il 23 luglio 2019, impegnandosi a trasferire la residenza entro diciorro mesi, in assenza del DL, avrebbe dovuto procedere entro il 23 gennaio 2021. Alla luce del DL invece dovrà contare il tempo trascorso dal giorno dell’acquisto al 23 febbraio 2020, ovvero sette mesi, sospendere il conteggio del termine sino al 31 marzo 2022 e ricominciare a tener conto del termine da quella data .

se il signor Tizio ha acquistato un immobile da adibire a prima casa il 23 luglio 2019, impegnandosi a vendere l’immobile pre – posseduto, in assenza del DL, avrebbe dovuto vendere la casa “vecchia” entro il 23 luglio 2020. Alla luce del DL invece dovrà contare il tempo trascorso dal giorno dell’acquisto al 23 febbraio 2020, ovvero sette mesi, sospendere il conteggio del termine sino al 31 marzo 2022 e ricominciare a tener conto del termine da quella data.

Qualora invece il signor Tizio avesse ha acquistato un immobile da adibire a prima casa durante il periodo di sospensione, ad esempio il 23 marzo 2020, impegnandosi a vendere l’immobile pre – posseduto, in assenza del DL, avrebbe dovuto vendere la casa “vecchia” entro il 23 marzo 2021. Alla luce del DL invece dovrà iniziare il conteggio del termine direttamente dal 31 marzo 2022 e pertanto dovrà vendere la vecchia casa entro il 31 marzo 2023.

 

Da Notare

Il DL parla genericamente di tutti i termini della nota II-bis.

Nella disciplina delle agevolazioni prima casa esiste il termine generale dei cinque anni dall’acquisto, termine entro il quale, laddove si volesse vendere la propria “prima casa” si andrebbe incontro alle sanzioni per la decadenza, salva la volontà di riacquistare.

La ragione del termine di cinque anni riguarda la volontà di evitare che le aliquote favorevoli della “prima casa” siano utilizzate per scopi speculativi. IL legislatore considera pertanto non speculativa il combinato acquisto – vendita oltre i cinque anni.

Proprio questa considerazione induce a pensare che il termine di cinque anni rimanda tale e non vada “sospeso” portandolo a 5 anni e dieci mesi. Il DL è chiaramente dettato per favorire il contribuente che potrebbe non riuscire a osservare i termini di legge nel periodo emergenziale.

Il vademecum dell’Agenzia delle Entrate non prende posizione sul punto. Sarebbe opportuno lo facesse presto. Sinon  che illustra le misure fiscali del d.l. n. 23/2020, pubblicato sul relativo sito, il quale con riguardo all’art. 24 non menziona, tra quelli sospesi, il termine quinquennale. Sul punto potrebbe essere comunque opportuno un chiarimento espresso. Si a tale chiarimento occorre prudenza al fine di evitare il contenzioso.

Il termine è stato ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2022 dall’ art. 3, comma 5-septies, D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15.

 

 

Assemblea in Teleconferenza

Assemblea in Teleconferenza

Le Assemblee telematiche (ai tempi del Covid – 19)

Tra le varie misure dettate dal Governo per far fronte all’emergenza sanitaria Covid 19 l’art. 106 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (“Norme in materia di svolgimento delle assemblee di società”) prevede espressamente

1.  In deroga a quanto previsto dagli articoli 2364, secondo comma, e 2478-bis, del codice civile o alle diverse disposizioni statutarie, l'assemblea ordinaria è convocata entro centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio.

  1. Con l'avviso di convocazione delle assemblee ordinarie o straordinarie le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le mutue assicuratrici possono prevedere, anche in deroga alle diverse disposizioni statutarie, l'espressione del voto in via elettronica o per corrispondenza e l'intervento all'assemblea mediante mezzi di telecomunicazione; le predette società possono altresì prevedere che l'assemblea si svolga, anche esclusivamente, mediante mezzi di telecomunicazione che garantiscano l'identificazione dei partecipanti, la loro partecipazione e l'esercizio del diritto di voto, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 2370, quarto comma, 2479-bis, quarto comma, e 2538, sesto comma, codice civile senza in ogni caso la necessità che si trovino nel medesimo luogo, ove previsti, il presidente, il segretario o il notaio.
  2. Le società a responsabilità limitata possono, inoltre, consentire, anche in deroga a quanto previsto dall'articolo 2479, quarto comma, del codice civile e alle diverse disposizioni statutarie, che l'espressione del voto avvenga mediante consultazione scritta o per consenso espresso per iscritto.”.

Le disposizioni dei commi 2 e 3 rispondono alla duplice preoccupazione di evitare assembramenti di persone tipiche dei momenti assembleari, limitando, al tempo stesso lo spostamento delle persone. La norma tuttavia intende favorire, nel limite del possibile, l’espetamento degli adempimenti propri della società, come ad esempio l’approvazione del bilancio (nei termini del comma 1) posto che il comma 7 dello stesso articolo dispone “7.  Le disposizioni del presente articolo si applicano alle assemblee convocate entro il 31 luglio 2020 ovvero entro la data, se successiva, fino alla quale è in vigore lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all'insorgenza della epidemia da COVID-19.”.

Il provvedimento è in linea con le disposizioni dei DPCM che si sono succeduti nel tempo, 1 marzo, 8 marzo, 11 marzo, 22 marzo 2020 i quali hanno ribadito in più punti la necessità di “virtualizzare” tutto quanto possibile talora parlando di “lavoro agile” (smart working) talora parlando, specificamente in materia di riunioni di “collegamenti da remoto”.

L’esigenza della precisazione del legislatore era stata di poco anticipata dalla Commissione Massime istituita presso il Consiglio Notarile di Milano  con la Massima n. 187 dell’ 11 marzo 2020 “ L’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione – ove consentito dallo statuto ai sensi dell’art. 2370, comma 4, c.c., o comunque ammesso dalla vigente disciplina – può riguardare la totalità dei partecipanti alla riunione, ivi compreso il presidente, fermo restando che nel luogo indicato nell’avviso di convocazione deve trovarsi il segretario verbalizzante o il notaio, unitamente alla o alle persone incaricate dal presidente per l’accertamento di coloro che intervengono di persona (sempre che tale incarico non venga affidato al segretario verbalizzante o al notaio).

Le clausole statutarie che prevedono la presenza del presidente e del segretario nel luogo di convocazione (o comunque nel medesimo luogo) devono intendersi di regola funzionali alla formazione contestuale del verbale dell’assemblea, sottoscritto sia dal presidente sia dal segretario. Esse pertanto non impediscono lo svolgimento della riunione assembleare con l’intervento di tutti i partecipanti mediante mezzi di telecomunicazione, potendosi in tal caso redigere successivamente il verbale assembleare, con la sottoscrizione del presidente e del segretario, oppure con la sottoscrizione del solo notaio in caso di verbale in forma pubblica.”.

Le ragioni delle due precisazioni, quella normativa del Governo e quella dei notai milanesi, dipende dalla usuale conformazione delle clausole statutarie e pertanto sembra opportuno fare un passo indietro.

L’Assemblea in Teleconferenza prima del Covid 19

La possibilità di governare una assemblea in audiovideo conferenza è fattispecie materia ormai ammessa pacificamente da diversi anni.

Si riporta qui la massima milanese in materia:

I. Assemblee in videoconferenza (16 gennaio 2001)

È lecita la clausola statutaria che prevede la possibilità che l'assemblea ordinaria e straordinaria di una società di capitali si svolga con intervenuti dislocati in più luoghi, contigui o distanti, audio/video collegati, a condizione che siano rispettati il metodo collegiale e i principi di buona fede e di parità di trattamento dei soci. In particolare, è necessario che:

- sia consentito al presidente dell'assemblea, anche a mezzo del proprio ufficio di presidenza, di accertare l'identità e la legittimazione degli intervenuti, regolare lo svolgimento dell'adunanza, constatare e proclamare i risultati della votazione;

- sia consentito al soggetto verbalizzante di percepire adeguatamente gli eventi assembleari oggetto di verbalizzazione;

- sia consentito agli intervenuti di partecipare alla discussione e alla votazione simultanea sugli argomenti all'ordine del giorno;

- vengano indicati nell'avviso di convocazione (salvo che si tratti di assemblea totalitaria) i luoghi audio/video collegati a cura della società, nei quali gli intervenuti potranno affluire, dovendosi ritenere svolta la riunione nel luogo ove saranno presenti il presidente e il soggetto verbalizzante.

Le clausole statutarie nella prassi ripercorrevano i passaggi della massima citata.

E’ probabile che nel 2001,epoca della massima, la realtà tecnologica fosse un po’ diversa dall’attuale e fosse naturale pensare, per le società più grandi, a due sedi della società video - collegate tra loro piuttosto che ad una molteplicità di collegamenti audiovideo pressochè singoli mentre per le società di minori dimensioni, il videocollegamento assembleare fosse più che altro utile per consentire la partecipazione ai membri del Collegio Sindacale senza imporre loro di uscire dai propri studi, ovvero per consentire il collegamento a qualche socio molto distante. Meno sentita era l’esigenza che il notaio non fosse insieme al Presidente. La contemporanea presenza di entrambi, per la verità, nelle massime e negli statuti vigenti veniva un po’ dato per scontato (“dovendosi ritenere svolta la riunione nel luogo ove saranno presenti il presidente e il soggetto verbalizzante.”): risolveva il problema del “luogo” dell’assemblea e risolveva il più pratico problema del verbale dell’assemblea e della sua sottoscrizione.

Venendo incontro ad altre esigenze pratiche Il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, con la massima n. H.B. 39, pubblicata a settembre 2017, ha previsto “Nelle società per azioni “chiuse”, anche in assenza di una specifica previsione statutaria, deve ritenersi possibile l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione, a condizione che siano in concreto rispettati i principi del metodo collegiale. Ove i mezzi di telecomunicazione siano previsti dall’avviso di convocazione, la società dovrà rispettare il principio di parità di trattamento dei soci. Spetta al presidente dell’assemblea verificare il pieno rispetto del metodo collegiale, secondo principi di correttezza e di buona fede e, ove il collegamento sia predisposto dalla società, il rispetto della parità di trattamento dei soci. Resta salva la possibilità per lo statuto di disciplinare diversamente la materia, anche in deroga alle regole della collegialità, e fermo il diritto del socio di intervenire fisicamente in assemblea. E’ sempre possibile, con il consenso unanime dei soci, derogare alla regola statutaria.”.

La massima Triveneto inverte il rapporto regola - eccezione tra Assemblea “fisica” e Assemblea “Virtuale”, spostando il tutto sul piano delle modalità di svolgimento (rispettose di alcuni indispensabili paletti) e della convocazione e rispettando al contempo il diritto del socio di partecipare “fisicamente”. Quindi, in definitiva, visto che in assenza di ogni previsione chi convoca l’Assemblea decide le modaltà, lo Statuto potrebbe porre dei limiti a questa discrezionalità.

Lo spunto di riflessione offerto dalla Massima del Triveneto ci indica la ragione per cui la previsione Normativa del DL 18/2020 sia fortemente opportuna.

Posto che da un punto di vista normativo nessun ostacolo si poneva all’Assemblea in Videoconferenza, qualche ostacolo si poteva individuare nelle norme statutarie. Nessuna limitazione (come ben ribadisce il Triveneto) può ravvisarsi negli statuti che non prevedevano nulla, ma l‘ostacolo poteva essere negli statuti che vietavano del tutto la Videoconferenza o che prevedevano la (consueta) “limitazione” data dalla previsione della simultanea presenza del Presidente con il Notaio.

 

LA VIDEOCONFERENZA OGGI

Quello che oggi dice la norma è che l’Assemblea può svolgersi in teleconferenza, fino al termine del comma 7 dell’art. 106, quali che siano le previsioni statutarie.

Non è una previsione obbligatoria, l’assemblea potrà svolgersi anche “fisicamente” nonostante il Covid 19, là dove siano rispettati i dettati dei DPCM e delle Ordinanze Regionali in materia di mobilità delle persone e di scurezza ed igiene dell’ambiente. Pensiamo ad una Assemblea straordinaria di una SRL unipersonale in cui saranno presenti solo Notaio e Unico Socio /Amministratore Unico.

L’Assembla potrà svolgersi anche solo in teleconferenza. Quindi il “diritto” alla partecipazione fisica del socio ipotizzata dalla Massima Triveneto può dirsi sospesa almeno fino al termine del comma 7 dell’art. 106. Una volta tornati alla “normalità” bisognerà interrogarsi sulla meritevolezza di tutela del socio che manifesti l’esigenza di partecipare “fisicamente” se questo non è previsto dallo statuto.

Anche se lo statuto prevede la presenza del notaio e del Presidente dell’Assemblea simultaneamente nello stesso luogo, oggi questo requisito può non essere osservato. Tornerà a dover essere osservato allo spirare del termine del comma 7 citato.

Potrebbe chiaramente essere opportuno riflettere sulle esigenze concrete della società per adeguare lo statuto e gestire al meglio una Assemblea in teleconferenza anche una volta superata l’emergenza sanitaria.

La domanda che potrebbe porsi è la seguente: chi sottoscrive il verbale ?

In proposito occorre dire che nessuna innovazione è necessaria quando si ha la presenza del notaio. Seppur la formulazione dell’art. 2375 cc. non sia particolarmente chiara quando  asserisce che le assemblee “… devono constare da verbale sottoscritto dal presidente e dal segretario o dal notaio” è opinione ormai comune che la disposizione sia da leggere nel senso che il Segretario (non notaio) debba firmare con il Presidente mentre il verbale notarile possa essere sottoscritto solo dal notaio.  La conseguenza è che la firma (del tutto usuale) del Presidente accanto al notaio è più una scelta stilustica di pura opportunità da parte del notaio non imposta da alcuna norma di legge.

All’assemblea in teleconferenza potranno essere abbinate forme di voto elettronico o voto per corrispondenza. Anche questa non è una previsione tassativa ma una opportunità dettata dalle circostanze.

Da un punto di vista pratico l’assemblea per teleconferenza dovrà essere ben organizzata a partire dalla relativa convocazione, preoccupandosi del fatto che fare a meno della presenza fisica è possibile, ma occorrono alcune accortezze per assicurare il rispetto della collegialità e dell’informativa pre e durante l’Assemblea.

La Collegialità intesa in senso ampio significa offrire una serie di garanzie al socio partecipante all’assemblea. Al di fuori dell’emergenza sanitaria, qualora il socio intenda partecipare fisicamente all’assemblea, a lui sarà comunicato il luogo e l’ora, gli sarà garantito l’accesso alla documentazione informativa necessaria o imposta dalla legge, gli sarà garantita la possibilità di intervento (secondo le modalità definite dal Presidente), di voto e di “interscambio” documentale.

Queste esigenze fisiche dovranno trovare la loro naturale collocazione all’interno della teleconferenza: il luogo fisico sarà sostituito, a seconda della tecnologia prescelta, o dal luogo fisico telecollegato (ipotesi storica) o dal “luogo virtuale” del collegamento. Il sistema prescelto dovrà poi garantire intervento e interscambio in tempo reale.

Dal punto di vista del verbalizzante e del Presidente, sarà necessario che il sistema prescelto  sia adeguato a garantire l’identificazione dei partecipanti con certezza, il che potrà essere attuato con diversi sistemi non aprioristicamente identificabili. Ad esempio in una società dalla ristrettissima compagine azionaria sarà sufficiente la presenza di fronte allo schermo del proprio computer, mentre in società dalla più ampia compagine azionaria potrebbero essere attuati sistemi più articolati.

Anche per l’esercizio del diritto di voto il sistema prescelto e la consistenza della base azionaria detteranno le regola. Nessuna regola impone che la sistema di videoconferenza siano abbinate delle forme di voto elettronico. Questo aspetto potrà essere ritenuto superfluo con compagini azionarie minime. All’aumentare del numero dei soci potrà essere abbinato il voto elettronico con sistemi ad hoc forniti e controllati dalla società ovvero mediante forme più elementari come l’espressione per posta elettronica o PEC.

IN ESTREMA SINTESI

per le società, siano esse srl o spa dalla ristretta compagine azionaria, al di là di ogni previsione statutaria è possibile tenere assemblee ordinarie o straordinarie anche solo in teleconferenza. Grande attenzione dovrà essere posta alle modalità di convocazione. Oggi le piattaforme informatiche offrono sistemi di teleconferenza agili ed accessibili che consentono di gestire pluralità di singoli collegamenti che possono interscambiare  documentazione in tempo reale. Molti di questi sistemi necessitano la titolarità del software al solo “organizzatore” mentre gli “invitati” alla teleconferenza si collegano in maniera agile senza necessità di particolari strutture, nella maggior parte dei casi anche per il tramite di uno smartphone ormai in dotazione ai più.

Il notaio potrà trovarsi insieme al Presidente o in Luogo diverso al momento assembleare. Sarà preferibile in questo momento, in ossequio alla normativa d’emergenza, la presenza in luogo diverso. Al termine del lavoro assembleare il verbale potrà essere sottoscritto anche dal solo notaio.

Si ricorda che stante il disposto dell’art. 2375 terzo comma “Il verbale deve essere redatto senza ritardo, nei tempi necessari per la tempestiva esecuzione degli obblighi di deposito e pubblicazione”, la legge non impone la contestualità dell’assemblea e della sua Verbalizzazione. Il notaio potrà assistere all’assemblea interamente in teleconferenza e redigere il verbale in un secondo momento. Deciderà quindi se sottoscriverlo da solo o richiedere la sottoscrizione del Presidente.

corona virus

corona virus

Comunicazione: misure di protezione sindrome Covid 19 – indicazioni organizzative

Mariano Comense, 15 ottobre 2021

 

A far data da oggi 15 ottobre 2021 entrano in vigore le disposizioni del D.L. 21-9-2021 n. 127, che integrano e sostituiscono le disposizioni precedentemente in vigore per fare fronte all’emergenza sanitaria e prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2.

Le disposizioni prevedono che chiunque svolga una attività lavorativa nel settore privato sia tenuto, ai fini dell'accesso ai luoghi in cui la predetta attività è svolta, di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19 (c.d. Green Pass).

Questa disposizione si applica anche a tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa o di formazione o di volontariato, anche sulla base di contratti esterni con l’eccezione dei soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute.

Lo Studio Notarile rientra tra i luoghi ove il controllo dovrà essere effettuato.

A tale fine:

  • Lo Studio Notarile Cesare Spreafico assicura la stretta osservanza per se e per il personale alle proprie dipendenze della normativa sopra detta e dei relativi controlli;
  • In base alle linee guida fornite dal Consiglio Nazionale del Notariato i clienti dello studio non rientrano tra i soggetti tenuti a esibire il Green Pass. Si raccomanda tuttavia ai clienti di comunicare allo studio particolari situazioni che li riguardino per poter predisporre per tempo le cautele del caso.
  • In base alle linee guida fornite dal Consiglio Nazionale del Notariato rientrano tra i soggetti tenuti a esibire il Green Pass i consulenti, lavoratori autonomi (es. visuristi, tecnici informatici), dipendenti da enti pubblici o privati, e i liberi professionisti (es. avvocati, commercialisti, geometri), agenti immobiliari. Qualora pertanto i suddetti soggetti non fossero in possesso del Green Pass non potranno avere accesso ai locali dello studio senza alcuna facoltà di deroga se non in base alla legge.

 

Si informano i clienti che i nostri uffici di Mariano Comense ed Erba sono regolarmente aperti per assicurare i propri servizi.

Tuttavia, per assicurare una corretta e ordinata gestione del lavoro in sicurezza sia per il personale di studio che per i nostri clienti, abbiamo deciso di adottare alcune regole che mirano prevalentemente a contenere i contatti ed evitare afflussi di persone nello stesso momento.

Certi di condividere con tutti Voi l'attenzione all’etica, alla salute pubblica e alle indicazioni di medici e specialisti e alle disposizioni Ministeriali, indichiamo qui di seguito il nostro protocollo di attenzione, in attesa di ritornare alle consuete abitudini e di poterVi accogliere liberamente nei nostri uffici anche solo per un saluto o per il piacere di ritrovarci intorno a un tavolo.

 

  • Gli uffici sono raggiungibili telefonicamente dal lunedì al venerdi (ore 8.30 –18.30);
  • L’accesso fisico è permesso solo a chi ha un atto fissato. In altri casi e per altre esigenze si prega di prendere contatti telefonici per fissare un appuntamento.
  • L’accesso è consentito solo alle persone che hanno appuntamento e/o che devono firmare l’atto (no accompagnatori, no bambini ecc.). Al fine di consentire ai Vostri tecnici,  consulenti e mediatori di potervi assistere adeguatamente,  faremo in modo di garantire l’inoltro delle bozze in modo che possiate esaminarle con i medesimi in tempo utile per la stipula e approfondire i singoli aspetti di ogni pratica. L’accesso fisico dei propri consulenti è di regola soggetto oltre che al controllo del Green Pass anche alla verifica delle condizioni di sicurezza dei locali in funzione del numero delle persone partecipanti e del distanziamento.
  • I Clienti sono pregati di accedere all'interno dell'ufficio per la sottoscrizione dell'atto solo nel momento in cui sono tutti presenti in maniera tale da garantire la minima permanenza possibile in luogo chiuso. L'attesa all'esterno dell'Ufficio, per quanto siano adottate tutte le misure possibili, è certamente più sicura che all'interno sia per i clienti che per il personale;
  • I Clienti dovranno accedere all'Ufficio necessariamente muniti di mascherina. Lo Studio non è in grado di fornire mascherine ai clienti. Si prega altresì di utilizzare i gel igienizzanti messi a disposizione all'ingresso dell'Ufficio. Analoga accortezza osserveranno nei Vostri confronti il Notaio e i Suoi Collaboratori.   
  • In ogni ufficio sono stati predisposti gel igienizzanti a disposizione dei clienti e le sale stipula vengono adeguatamente igienizzate prima dell’arrivo dei clienti;
  • Lo studio ha attivato modalità tali da permettere di effettuare colloqui direttamente con il Notaio in videoconferenza o telefonici per chi avesse tale possibilità. Tale modalità risulta sempre preferibile.
  • Per la consegna della documentazione cartacea di prega di contattare telefonicamente i nostri uffici che Vi daranno indicazioni in proposito;

Restiamo a disposizione per ogni richiesta in proposito.

Ci auguriamo di sentirvi presto e soprattutto di rivedervi presto nei nostri Uffici

 

Cesare Spreafico e Collaboratori

Coacervo e legalità tributaria

Coacervo e legalità tributaria

Coacervo ereditario, imposta di successione e principio di legalità

Coacervo è un termine ignoto ai più e, nell’ambito dell’imposta di successione e donazione indica la necessità di sommare all’asse ereditario (o all’attuale oggetto della donazione) le donazioni effettuate anteriormente.

La norma ha due principali fonti normative:

in materia successoria l’art. 8 del  D.Lgs. 31-10-1990 n. 346 che al comma 4 recita “Il valore globale netto dell'asse ereditario è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili a norma dell'art. 7, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari, comprese quelle presunte di cui all'art. 1, comma 3, ed escluse quelle indicate all'art. 1, comma 4, e quelle registrate gratuitamente o con pagamento dell'imposta in misura fissa a norma degli articoli 55 e 59; il valore delle singole quote ereditarie o dei singoli legati è maggiorato, agli stessi fini, di un importo pari al valore attuale delle donazioni fatte a ciascun erede o legatario. Per valore attuale delle donazioni anteriori si intende il valore dei beni e dei diritti donati alla data dell'apertura della successione, riferito alla piena proprietà anche per i beni donati con riserva di usufrutto o altro diritto reale di godimento.”;

in materia di donazione l’art. 57 del medesimo provvedimento: “ Il valore globale netto dei beni e dei diritti oggetto della donazione è maggiorato di un importo pari al valore complessivo di tutte le donazioni, anteriormente fatte dal donante al donatario, comprese quelle presunte (…) Negli atti di donazione (…) devono essere indicati gli estremi delle donazioni anteriormente fatte dal donante al donatario o ad alcuno dei donatari e i relativi valori alla data degli atti stessi (…)

Ha ancora senso parlare oggi di coacervo ?

Nell’ambito delle donazioni la risposta è senza dubbio positiva. L’art. 57 trova piena applicazione. Nel nuovo impianto dell’imposta di donazione il “cumulo” con le donazioni precedenti è funzionale a determinare se siano o meno superate le franchigie di legge.

A esempio: se un soggetto dona al proprio fratello la somma di Euro 80.000,00 con le franchigie attuali la donazione sarà esente da imposta in quanto “in franchigia”. Nel caso di una seconda donazione dell’importo di Euro 50.000,00 con atto successivo, la medesima, pur essendo inferiore a Euro 100.000,00 sarà soggetta a imposta nella misura del 6% sull’importo di Euro 30.000,00 (Euro 80.000,00 + Euro 50.000 = Euro 130.000,00 di cui Euro 100.000,00 “in franchigia” ed Euro 30.000,00 soggetti a imposta).

Nell’ambito dell’imposta di successione la questione merita più di un dubbio.

Facciamo un passo indietro.

A cosa serviva il coacervo nelle successioni ? l’art. 8 testualmente dice “è maggiorato ai soli fini della determinazione delle aliquote…”. La disposizione era strettamente legata all’impianto originario del T.U. sulle successioni e donazioni.

IL T.U. nasceva nel 1990 con un impianto particolare. L’imposta seguiva una impostazione progressiva: l’importo dell’imposta era determinata da due aliquote distinte, una in funzione dell’asse ereditario e una (maggiorazione) determinato dal rapporto di parentela. L’impostazione seguiva scaglioni progressivi.

In questo contesto, in assenza di coacervo, le donazioni potevano essere un facile strumento di elusione della progressività. Pertanto il coacervo serviva per “collocare” il residuo ereditario all’interno dello scaglione di valore corretto (“…ai fini della determinazione dell’aliquota…”).

L’art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Governo Prodi) ha modificato una prima volta l’imposta rendendola proporzionale, ovvero con una percentuale fissa in funzione del solo rapporto di parentela su un importo eccedente la somma di lire 350.000.000.

L’imposta è stata poi soppressa dagli articoli da 13 a 17, L. 18 ottobre 2001, n. 383 (Governo Berlusconi bis) e poi nuovamente istituita dal comma 47 dell’art. 2, D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (Governo Prodi bis) fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54 dello stesso articolo 2.

Nell’ultima versione le aliquote non sono più all’interno del D.Lgs. 31 ottobre 1990, ma nel comma 48 art. 2 l. 262/2006 e quindi il vecchio art. 7 risulta di fatto (ma non testualmente) abrogato.

Due pertanto i motivi per ritenere implicitamente abrogato l’istituto del coacervo in materia di successioni:

in primo luogo il fatto che sia implicitamente abrogato l’art. 7 al quale l’art. 8 farebbe riferimento. Siccome il D.lgs. 346 del 1990 è stato “riesumato” dopo essere “defunto” con la riforma del Governo Berlusconi, lo è stato in quanto compatibile con i commi da 48 a 54 della legge che lo ha riesumato. E il coacervo sembra incompatibile con le nuove disposizioni.

In secondo luogo, soprattutto da un punto di vista letterale, il coacervo era operazione necessaria solo (non “anche”, ma “solo”!) per la determinazione delle aliquote applicabili. Nell’imposta dopo il 2000 le aliquote sono uniche in funzione del rapporto di parentela e non in funzione del valore dell’asse. Ritendere il “coacervo” per la determinazione della “franchigia” è operazione concettualmente diversa dalla determinazione dell’”aliquota applicabile”.

Da ultimo nei diversi interventi normativi il legislatore è ben attento a non limitare la portata del “coacervo” nelle donazioni quale operazione funzionale solo al calcolo delle aliquote, eppure anche l’impianto dell’imposta di donazione è cambiato come l’imposta di successione. Nell’imposta di successione tuttavia il legislatore non interviene sull’art. 8 (ubi lex voluit dixit ….).

L’Agenzia delle Entrate appare di contrario avviso. Nella Circolare 3 del 2008 al punto 3.2.3. asserisce che “Ai soli fini dell’applicazione della franchigia sulla quota devoluta all’erede o al legatario, si deve tener conto del valore delle donazioni in vita fatte dal de cuius a favore dello stesso erede o legatario”. La spiegazione di questo salto logico tra “i soli fini della determinazione delle aliquote” e i “soli fini dell’applicazione della franchigia” nel silenzio del legislatore che nulla dice in proposito, è data nei seguenti termini ”A seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 342 del 2000, il disposto dell’articolo 8, rimasto immutato nella sua formulazione, deve logicamente riferirsi non più alla determinazione delle aliquote, stabilite in misura proporzionale, bensì all’applicazione delle franchigie, posto che sotto tale profilo le modalità applicative previste nel precedente regime sono analoghe alle attuali.”. Arrivando a comprendere nel coacervo anche le donazioni poste in essere nel periodo compreso tra il 25 ottobre 2001 (data di entrata in vigore della legge n. 383 del 2001 che aveva abrogato l’imposta di successione) e il 29 novembre 2006 (data di entrata in vigore dell’attuale regime in materia di successioni) in cui l’imposta era abolita !

La posizione è ampiamente confermata dalle istruzioni alla compilazione della Dichiarazione di successione telematica, come si evince facilmente nel quadro ES – Donazioni ed atti a titolo gratuito.

Di contrario avviso la Corte di Cassazione in proposito Cass. civ. Sez. V Sent., 06-12-2016, n. 24940 “In tema d'imposta di successione, intervenuta la soppressione del sistema dell'aliquota progressiva in forza dell'art. 69 della l. n. 342 del 2000, deve ritenersi implicitamente abrogato l'art.8, comma 4, del d. lgs. n. 346 del 1990, che prevedeva il cumulo del "donatum" con il "relictum" al solo fine di determinare l'aliquota progressiva da applicare, attesa la sua incompatibilità con il regime impositivo caratterizzato dall'aliquota fissa sul valore non dell'asse, ma della quota di eredità o del legato”. E la quasi contemporanea Cass. civ. Sez. V, 16-12-2016, n. 26050 ”La previsione di cui all'art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 346 del 1990, rescrivente il coacervo del donatum con il relictum, non era finalizzata a ricomprendere nella base imponibile anche il donatum (oggetto di autonoma imposizione), ma unicamente a stabilire una forma di "riunione fittizia" nella massa ereditaria dei beni donati, ai soli fini della determinazione dell'aliquota da applicare per calcolare l'imposta sui beni relitti. Orbene, fermo restando che il "cumulo" non sortiva effetto impositivo del donatum, ma soltanto effetto determinativo dell'aliquota progressiva, si ritiene logica e coerente conseguenza che, eliminata quest'ultima in favore di un sistema ad aliquota fissa sul valore non dell'asse globale ma della quota di eredità o del legato, non vi fosse più spazio per dar luogo al coacervo.

L'istituto del "coacervo" previsto dal D.Lgs. n. 346/1990, art. 8, comma 4, secondo cui il valore globale netto dell'asse ereditario è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari, essendo venuto meno il sistema impositivo mediante aliquote progressive, non può ritenersi comunque tuttora vigente al residuale fine di individuare la base imponibile al netto della franchigia esente da imposta.”

L’impostazione della Cassazione non è del tutto condivisa dalla dottrina. Parte della medesima infatti è ripiegata sulla posizione dell’Amministrazione finanziaria. Le argomentazioni, oltre che di carattere logico sono anche di carattere analgico giuridico. Secondo tale impostazione, negando lo spazio al coacervo si aprirebbe la strada ad una programmazione successoria/fiscale particolare. Poniamo il caso di un soggetto titolare di un patrimonio di Euro 2.000.000 ed un solo figlio. Chiaramente se il soggetto venisse a mancare intestato e senza aver disposto nulla in donazione l’imposta all’aliquota attuale ammonterebbe a Euro 40.000 (ovvero 1.000.000 in franchigia e 1.000.000 X 4%). Qualora invece, senza dar spazio al coacervo, il medesimo disponesse una donazione di 1.000.000, alla morte del donante, nessuna imposta graverebbe sul figlio erede. La conseguenza sarebbe una estensione analogica in materia successoria di quanto mantenuto in materia di donazione.

Tuttavia la domanda fondamentale è: è sufficiente la logica per creare una imposta o è necessaria una norma ?

A propendere per la seconda soluzione non è solo la Cassazione, ma probabilmente direttamente la Costituzione. L’art. 23 recita “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”. La formulazione oltre che per prossimità è molto simile all’art. 25 in materia di responsabilità penale.

L’imposizione tributaria segue un principio di legalità: un tributo esiste in quanto imposto dalla legge. Se la legge, ancorché possa apparire incoerente con il resto dell’impianto normativo (ma oggi in materia Tributaria richiedere la coerenza è certamente un azzardo!), non prevede l’imposizione di una certa fattispecie, allora la fattispecie non deve essere tassata. Tassare in via analogica, così come non è consentito in materia penale, non dovrebbe essere consentito in materia tributaria.

L’orientamento della Cassazione, anche alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, deve essere senz’altro condiviso.

Come comportarsi oggi ?

Difficile rispondere a questa domanda.

Aderendo alla tesi della Cassazione in dichiarazione di successione non dovrebbero essere inserite le donazioni. Tuttavia il modello approvato dall’Agenzia le prevede il loro inserimento. Gli operatori pratici segnalano numerose richieste da parte dell’Agenzia delle Entrate di inserimento in dichiarazione di donazioni non inserite.

Il rischio oltre che dal contenzioso specifico sulla vigenza o meno del coacervo deriva dalla sanzione per infedele dichiarazione ex art. 51 del medesimo Testo Unico (dal 100 al 200% dell’imposta non pagata). L’infedeltà della dichiarazione è definita nell’art. 32, comma 3, del T.U.S., il quale, tra le varie cause che la producono, prevede la mancata indicazione nella dichiarazione di successione delle donazioni anteriori alla data di scomparsa del de cuius da quest’ultimo effettuate.

Rinuncia eredità

Rinuncia eredità

RINUNCIA ALL’EREDITA’: ALCUNE ACCORTEZZE

Nel nostro sistema successorio l’eredità si acquista mediante l’accettazione.

Ciò significa che quando si apre una successione (momento che coincide con la morte del soggetto di cui si tratta) colui che comunemente individuiamo come “erede” in realtà è solo un “chiamato all’eredità” e cioè un soggetto che non è ancora investito dei diritti ed obblighi che comporta l’accettazione dell’eredità stessa. Non è ancora il “proprietario” dei beni del defunto e non è ancora il “responsabile” dei debiti del defunto.

Il “chiamato” ha uno stretto rapporto con l’eredità. Avrà il diritto di accettarla o di rifiutarla. Avrà il diritto di valutarne con attenzione la consistenza e, mentre riflette, avrà il potere di compiere alcune operazioni “conservative” che non lo rendono ancora erede.

Chiaramente i terzi, specialmente coloro che vantavano crediti verso il defunto, hanno interesse a capire come si muove il chiamato perché da quello che sarà il comportamento del chiamato dipenderà la sorte del loro credito.

Con l’accettazione pura e semplice, ovvero quella senza il beneficio di inventario, avviene la confusione dei patrimoni e pertanto l’erede risponde dei debiti del defunto anche con i suoi beni e anche oltre il valore dell’asse ereditario.

Il rapporto tra il chiamato e l’eredità e il comportamento del chiamato con i beni ereditari è importante per capire se il chiamato ha accettato o meno l’eredità

Il Chiamato potrà accettare l’eredità con dichiarazione espressa o con un comportamento concludente. Mentre il primo caso è facile da individuare il secondo richiede di individuare un atto di disposizione di un bene ereditario ovvero un atto che il chiamato poteva compiere solo comportandosi come erede in tutto e per tutto come ad esempio vendere un bene, riscuotere un credito o pagare un debito del defunto.

La legge poi distingue il chiamato che si trova nel possesso dei beni ereditari rispetto al chiamato che non è nel possesso dei beni ereditari.

Il chiamato che è nel possesso dei beni ereditari per oltre re mesi è considerato erede puro e semplice, mentre il chiamato che non è nel possesso dei beni ereditari potrà prendersi un tempo notevolmente più lungo per decidere se accettare o meno l’eredità e tale termine coincide con la prescrizione del diritto di accettare (dieci anni).

Colui che non vorrà avere alcun rapporto con l’eredità potrà rinunciarvi.

Pertanto, valutata la situazione, per le più svariate ragioni il chiamato potrà disinteressarsi delle sorti dell’eredità. Le ragioni possono essere le più varie, ad esempio:

- si tratta di una eredità passiva e si vuole evitare di dover rispondere delle passività ereditarie o di affrontare la complessa pratica di accettazione con beneficio di inventario;

- si tratta di una eredità che non si vuole conseguire per ragioni morali;

- si tratta di una eredità che non si vuole conseguire per favorire il subentro delle generazioni successive nella posizione del defunto.

Apparentemente si tratta di una situazione molto semplice. Resa la dichiarazione colui che ha rinunciato è come se non fosse mai stato chiamato all’eredità (art. 521 cc.).

Tuttavia occorre tenere in debita considerazione almeno due particolarità che impegneranno il chiamato rinunciante in termini maggiori rispetto alla pura rinuncia.

Profilo fiscale:

L’art. 28 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, comunemente noto con il TU delle successioni e donazioni  dispone che “La dichiarazione della successione deve essere  presentata  all'ufficio del registro competente, che ne rilascia ricevuta; può  essere  spedita  per raccomandata e si considera presentata, in tal caso, nel  giorno  in  cui  è consegnata all'ufficio postale,  che  appone  su  di  essa  o  sul  relativo involucro il timbro a calendario.” E continua sancendo che “Sono obbligati a presentare la dichiarazione: i chiamati all'eredità  e

i legatari ….” . La norma pertanto non impone all’erede di presentare la dichiarazione di successione, ma al chiamato.

Chiaramente il chiamato che non ha accettato ancora l’eredità e non si trova nel possesso dei beni ereditari sarà tenuto alla presentazione della dichiarazione di successione.

Ma quale è la posizione del rinunciante ?

Il rinunciante, come dice la legge si considera come mai chiamato all’eredità, quindi a stretto rigore non è tenuto a presentare la dichiarazione di successione.

Non è quindi tenuto a compiere alcunchè di rilevanza fiscale ?

L’art. 28 al comma 5 dispone che “I chiamati all'eredità e i legatari sono esonerati dall'obbligo  della

dichiarazione  seanteriormente  alla  scadenza  del   termine stabilito nell'art. 31, hanno rinunziato all'eredità o al legato (…) e  ne hanno informato per raccomandata l'ufficio  del  registro,  allegando  copia

autentica della dichiarazione di rinunzia all'eredità (…)”.

Quindi per essere esonerati dalla dichiarazione di successione dovranno aver rinunciato entro l’anno dall’apertura della successione e comunicato la rinuncia all’Agenzia delle Entrate.

Chiaramente laddove la rinuncia abbia come fine quello di far subentrare alctri chiamati ce presenteranno la successione nei termini varrà il disposto del comma 4 per cui “Se più soggetti sono obbligati alla stessa dichiarazione questa non  si considera omessa se presentata da uno solo” e quindi la mancata comunicazione all’Agenzia non sortirà effetti negativi.

Profilo Civilistico:

Una particolare attenzione dovranno avere quei chiamati che si trovano nel possesso dei beni ereditari e decidono, prima del decorso dei tre mesi dall’apertura della successione (dopo sarebbe inutile e senza effetto) decidano di rinunciare all’eredità.

L’opinione più diffusa e quella certamente da preferire e con essa anche la giurisprudenza tradizionale ponevano il termine dei tre mesi come spartiacque ideale tra l’essere considerato erede e essere un semplice chiamato. Nei tre mesi il chiamato poteva rinunciare all’eredità senza dover fare l’inventario. Questa interpretazione in sintesi si fondava  sul dettato normativo che considera il rinunciante come se non fosse mai stato chiamato all’eredità (art. 521 cc) tagliando sin dall’origine il rapporto tra eredità e (già) chiamato. Peraltro i terzi possono conoscere la recisione di questo legame dal registro delle successioni dove sono registrati gli atti di rinuncia.

Purtroppo però una piccola parte della giurisprudenza più recente ha messo i dubbio questa ricostruzione dando un valore diverso all’art.  485 che recita “Il chiamato all'eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. (…) Trascorso tale termine senza che l'inventario sia stato compiuto, il chiamato all'eredità è considerato erede puro e semplice (…)  Compiuto l'inventario, il chiamato che non abbia ancora fatto la dichiarazione a norma dell'articolo 484 ha un termine di quaranta giorni da quello del compimento dell'inventario medesimo, per deliberare se accetta o rinunzia all'eredità. Trascorso questo termine senza che abbia deliberato, è considerato erede puro e semplice

In particolare la Cass. civ. Sez. III, 29-03-2003, n. 4845 ha disposto che “L'onere imposto dall'art. 485 c.c. al chiamato all'eredità che si trovi nel possesso di beni ereditari di fare l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della successione o della notizia di essa condiziona non solo la facoltà del chiamato di accettare l'eredità con beneficio di inventario ex art. 484 c.c., ma anche quella di rinunciare all'eredità, ai sensi del successivo art. 519 c.c., in maniera efficace nei confronti dei creditori del "de cuius", dovendo il chiamato, allo scadere del termine stabilito per l'inventario, essere considerato erede puro e semplice”.

Quindi in buona sostanza il chiamato dovrebbe comunque compiere l’inventario se si trova nel possesso dei beni ereditari e poi rendere la dichiarazione di rinuncia. Senza inventario la rinuncia sarebbe da considerarsi non efficace. Si tratta in realtà di un orientamento non consolidato sebbene alcuni autori vedano una conferma dalla successiva Cass. civ. Sez. VI - 2 Ordinanza, 13-03-2014, n. 5862 “Ai sensi dell'art. 485 c.c. il chiamato all'eredità, che si trovi nel possesso di beni ereditari, ha l'onere di fare l'inventario e la mancanza dell'inventario, nei termini prescritti dalla legge, comporta che il chiamato vada considerato erede puro e semplice e che lo stesso, quindi, perda non solo la facoltà di accettare l'eredità con beneficio dell'inventario, ma anche quella di rinunciare alla stessa.”.

Questo orientamento,a cnora isolato, pur non mutando la comune opinione che la rinuncia nei tre mesi anche in assenza di inventario sia efficace impone particolare prundenza anche considerando la situazione di possesso dei beni ereditari è una situazione particolarmente “scivolosa” bastando anche un solo bene ( vedi  Cass. civ. Sez. II, 14-05-1994, n. 4707 ”Il possesso dei beni ereditari (…)non deve necessariamente riferirsi all'intera eredità, essendo sufficiente il possesso di un solo bene (…)” ) e non essendo necessaria un comportamento particolarmente stretto, bastando una qualsiasi relazione con i beni  ( sempre Cass. civ. Sez. II, 14-05-1994, n. 4707 “esaurendosi in una mera relazione materiale tra i beni ed il chiamato all'eredità, e cioè in una situazione di fatto che consenta l'esercizio di concreti poteri su beni, sia pure per mezzo di terzi detentori, con la consapevolezza della loro appartenenza al compendio ereditario.”)

Acquisto di immobili ristrutturati

Acquisto di immobili ristrutturati

Agevolazioni per l’acquisto degli immobili ristrutturati

Il "T.U. Imposte sui redditi" all’art. 16 bis prevede una serie di detrazioni per interventi di recupero edilizio.

Il comma 1 introduce l’agevolazione  dicendo che “Dall'imposta lorda si detrae un importo pari al 36 per cento delle spese documentate,  fino  ad  un  ammontare  complessivo  delle  stesse  non superiore a 48.000 euro per unità immobiliare, sostenute  ed  effettivamente rimaste a carico dei contribuenti che possiedono o detengono, sulla base  di un titolo idoneo, l'immobile sul quale sono effettuati gli interventi (…)”.

Il comma 3 estende le detrazioni in oggetto anche agli “interventi  di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione  edilizia  di  cui alle lettere c) e d) del comma 1 dell'articolo 3 del decreto del  Presidente

della Repubblica 6 giugno  2001,  n.  380,  riguardanti  interi  fabbricati, eseguiti da imprese di  costruzione  o  ristrutturazione  immobiliare  e  da cooperative edilizie, che provvedano  entro  diciotto  mesi  dalla  data  di termine dei lavori alla successiva alienazione o assegnazione dell'immobile”, specificando che “La detrazione spetta al successivo acquirente o assegnatario  delle  singole unità immobiliari, in ragione di un'aliquota del 36  per  cento  del  valore degli interventi eseguiti, che si assume in misura pari al 25 per cento  del prezzo dell'unità immobiliare risultante nell'atto pubblico di compravendita o di assegnazione e, comunque, entro l'importo massimo di 48.000 euro.”

Ricapitolando il disposto normativo la detrazione compete:

- all’acquirente delle singole unità immobiliari;

- importo della detrazione forfetario 25% del prezzo risultante dall’atto;

- entro l’importo di Euro 48.000,00 (per ora elevato a Euro 96.000);

- per singole unità immobiliari.

L’immobile deve essere acquistato dall’impresa che ha effettuato gli interventi di cui alle lettere “C” e “D” dell’art. 3 del DPR 380, quindi si escludono le manutenzioni ordinarie.

L’impresa deva aver provveduto ad effettuare gli interventi su interi fabbricati.

Ma cosa si intende per ristrutturazione ?

La normativa urbanistica di riferimento, sia nazionale che regionale tende a considerare la ristrutturazione in termini certamente più ampi di quelli a cui la conduce la comune esperienza. Da un punto di vista urbanistico il concetto di ristrutturazione tende a coprire interventi di radicale trasformazione, inclusi gli interventi di demolizione totale e ricostruzione. Anche senza rispetto di sagoma o volumetria.

La domanda che si si pone pertanto è se la detrazione competa sempre e comunque quando il titolo parla di “ristrutturazione” o se debba distinguersi tra ristrutturazione e ristrutturazione.

La Circolare n. 7/E del 27 aprile 2018, riassumendo il contenuto di altre Circolari traccia alcuni distinguo:

- demolizione e ricostruzione senza rispetto della volumetria: e asserisce “Nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio preesistente” concludendo che “la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione””

- intervento senza demolizione dell’edificio esistente ma con ampliamento dello stesso: in questo caso “la detrazione compete solo per le spese riferibili alla parte esistente in quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione””

La circolare supera invece le perplessità sul rispetto della sagoma in quanto L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, così come riformulato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del DL n. 69 del 2013, ridefinisce la fattispecie degli interventi di ristrutturazione edilizia eliminando il riferimento al rispetto della “sagoma” per gli interventi di demolizione e successiva ricostruzione ed imponendo il solo rispetto della volumetria preesistente”.

Va segnalato che gli interventi normativi successivi hanno (temporanamente) incrementato i limiti quantitativi della detrazione al 50% rispetto al 36% e a Euro 96.000,00 dai 48.000,00 del dettato originario.

Gli importi così incrementati valgono sino al 31 dicembre 2019 (salvo proroghe).

Non occorre alcuna particolare forma di pagamento. Non occorrerà raccogliere la documentazione inerente i lavori effettuati perché la detrazione, indipendentemente dal valore degli interventi eseguiti, spetta in via forfettaria sul 25% del prezzo. Su questo importo andrà calcolata la detrazione (del 50 o 36%)

L’agenzia delle entrate nella guida aggiornata al luglio 2019 (https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/documents/20143/233439/Ristrutturazioni+edilizie+it_Guida_Ristrutturazioni_edilizie_Maggio2019.pdf/ed587c35-c2d6-7346-b79f-e2409b6a8c92) riporta il seguente utile esempio di calcolo:

Un contribuente acquista un’abitazione nel 2019 al prezzo di 200.000 euro.

Il costo forfetario di ristrutturazione (25% di 200.000 euro) è di 50.000 euro.

La detrazione (50% di 50.000 euro) è pari a 25.000 euro.

conto corrente e comunione dei beni

conto corrente e comunione dei beni

Conto Corrente e Comunione Legale

L’art. 11 del D.Lgs. 31-10-1990 n. 346 (T.U. successioni e donazioni) in materia di Presunzione di appartenenza all'attivo ereditario recita che “Si considerano compresi nell'attivo ereditario (…) i beni mobili e i titoli al portatore di qualsiasi specie posseduti dal defunto o depositati presso altri a suo nome (…) e per i crediti di pertinenza del defunto e di altre persone, compresi quelli derivanti da depositi bancari e da conti correnti bancari e postali cointestati, le quote di ciascuno si considerano uguali se non risultano diversamente determinate.”.

Per quanto concerne i rapporti di conto cointestati sono già stati trattati in altro contributo.

La domanda cui si cercherà di rispondere è la seguente: il conto corrente intestato ad un coniuge che versa in comunione legale a chi spetta ? l’ipotesi è del tutto dfferente rispetto al conto corrente intestato ad un solo coniuge.

La giurisprudenza più risalente era orientata nel ritenere che il coniuge non intestatario del conto corrente, benchè in comunione legale, non vantasse (salvo prova contraria) alcun diritto sul saldo attivo di quel conto.

Questa opinione si basava sulla considerazione che l’oggetto della comunione legale (art. 179 del codice civile) fosse legata al concetto di diritto reale e non ai diritti di credito.

Giova, a tale proposito, ricordare che il rapporto di conto corrente è un contratto tra la Banca ed il Cliente. Il cliente deposita il denaro sul conto corrente e ne perde la proprietà (del denaro). Il denaro diventa di proprietà della Banca. La Banca diventa debitrice nei confronti del cliente del saldo attivo del conto. Il cliente pertanto  non è proprietario del denaro ma titolare di un diritto di credito verso la Banca in quanto creditore.

L’orientamento è ben riassunto dalla massima Cass. civ. Sez. V, 01-04-2003, n. 4959 “In tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario intestato al "de cuius", va tassato per intero, anche se il defunto era in regime di comunione legale con il coniuge, atteso che la comunione legale fra i coniugi, di cui all'art. 177 c.c., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della "res" o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di una "res", non sono suscettibili di cadere in comunione.”.

Come ben evidente la questione ha implicazioni fiscali e civili:

  • Implicazioni Fiscali: stabilire se un conto corrente è in comunione significa decidere se un determinato conto corrente debba essere inserito per intero nella successione del coniuge deceduto oppure solo per la quota di metà;
  • Implicazioni Civili: stabilire se un conto corrente è in comunione significa decidere se esiste una presunzione in favore del coniuge cointestatario di appartenenza del saldo attivo del C/C pari alla metà (per esempio in fase di separazione).

L’Amministrazione Finanziaria con la Circ. n. 53 (prot. n. 400885) del 6 dicembre 1989 e successivamente con la Ris. n. IV-9-022 del 16 luglio 1993 ha ritenuto che il conto corrente intestato al coniuge defunto in comunione legale appartenesse per intero allo stesso coniuge defunto. In sostanza non lo riteneva (e forse non lo ritiene tuttora) compreso nell’elenco dell’art. 179 del codice civile e sostiene che l’”apparenza” creata dal conto intestato ad uno solo dei coniugi, dove comunque potevano finire somme estranee alla comunione legale (ad esempio un risarcimento danni), non potesse essere superata.

La Corte di Cassazione ha tuttavia rivisto il proprio orientamento tradizionale arrivando ad ammettere che anche i diritti di credito possano formare oggetto della comunione legale.

La Cass. civ. Sez. I con Sentenza, 09-10-2007, n. 21098 sostiene che “La comunione legale (…) prevede uno schema normativo non finalizzato (…) alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi (…)  la ratio della disciplina (…) trascende il carattere del bene (…) e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto; ne consegue che anche i crediti (…) sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 cod. civ. poste dall'art. 179 cod. civ”.

Per la verità la Suprema Corte non afferma che sempre il conto corrente intestato ad un coniuge sia paragonabile ad un “acquisto” in comunione, ma si limita a non ritenere la natura del diritto di credito incompatibile con il regime di comunione legale. In particolare  la Suprema Corte, negli orientamenti successivi sembra porre l’attenzione più che altro sulle vicende che hanno portato al formarsi del conto corrente intestato ad uno solo dei coniugi.

Se il conto corrente si è formato con risorse di uno solo dei coniugi, estranee come provenienza alla comunione legale (art. 179 cc.) il conto corrente non entrerà in comunione.

In questo senso sembra deporre la Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 17-07-2018 ”I coniugi, coniugati in regime di comunione legale dei beni, al momento della separazione personale, devono ripartirsi nella misura pari alla metà la somma rinveniente sul conto corrente cointestato e costituito in costanza di matrimonio. A tale regola fa eccezione il caso in cui uno dei due coniugi riesca a dimostrare che il denaro sul conto corrente sia il frutto del proprio lavoro e che l'intestazione è fittizia e realizzata solo al fine di garantire all'altro una disponibilità economica per il ménage familiare.” Dove anche il conto cointestato non necessariamente appartiene ai coniugi in pari quote e andrà diviso in sede di separazione.

Sempre in questo senso Cass. civ. Sez. I, 20-01-2006, n. 1197 “In tema di comunione legale tra coniugi, il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l'alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente”.

Se invece il conto corrente è intestato ad uno solo dei coniugi e viene alimentato con i proventi dell’attività (o i frutti dei beni) del coniuge defunto, secondo la Suprema Corte seguirà la regola dell’art. 177 primo comma lettera “c” (Costituiscono oggetto della comunione: b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati). Pertanto, in questo caso, essendo la morte una delle cause di scioglimento della comunione legale, quanto a quella data residuerà sarà da considerarsi oggetto della comunione legale.

In questo senso la Cass. civ. Sez. V Sent., 06-05-2009, n. 10386 “Il saldo attivo di un conto corrente bancario o postale intestato in regime di comunione legale dei beni soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, deve considerarsi pure facente parte della comunione legale dei beni al momento del decesso dell'intestatario ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett. c), c.c., allorquando cioè si verifica in concreto lo scioglimento della comunione determinato dalla morte, con il conseguente riconoscimento, a maggior ragione da tale data, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo” La Suprema corte prosegue precisando che il diritto del conige superstite non è un diritto ereditario ma ha diritto sulla metà del C/C direttamente dalle norme sulla comunione (“sicché il coniuge superstite, attesa la presunzione di parità delle quote, ha un diritto proprio e non ereditario sulla metà dei frutti e dei proventi residui persino nell'ipotesi che essi fossero stati esclusivi del coniuge defunto”). In senso conforme Cass. civ. Sez. V Sent., 23-02-2011, n. 4393

In Conclusione:

sotto il profilo civilistico: valutare se un conto corrente ricada o meno in comunione legale richiede una indagine sulla genesi del conto corrente. In difetto di prova contraria, secondo le regole della comunione differita, al momento dello scioglimento della comunione legale (separazione o morte) la somma residua sarà da considerarsi comune.

Sotto il profilo fiscale: varrebbe la stessa regola, salvo comunque ritenere vigente la presunzione per cui, il conto intestato ad un solo coniuge in regime di comunione legale, sarà da considerarsi caduto in successione per la quota di un mezzo, mentre l’altra metà apparterrà al coniuge superstite come diritto proprio (in applicazione delle norme  sulla comunione legale). Questa considerazione deriva dal consolidato orientamento sella Suprema Corte, tuttavia non può dirsi acquisito anche dall’Amministrazione Finanziaria che non risulta aver cambiato il proprio orientamento rispetto alle circolari sopra riportate. Dichiarare in successione unicamente la quota di un mezzo, benchè corretto, potrebbe comportare un contenzioso con l’Agenzia delle Entrate.

conto cointestato

conto cointestato

DI CHI E' IL CONTO CORRENTE COINTESTATO ?

L’esigenza più frequente: una persona che, per i più svariati motivi, spesso legati all’avanzare dell’età, intende affiancare a se un’altra persona di fiducia nella gestione del proprio conto corrente.

Le soluzioni proposte dagli istituti di credito sono generalmente la delega ad operare sul conto e la co-intestazione del conto corrente.

La delega a operare sul conto non muta la titolarità della somma sul conto stesso, che rimane quindi di esclusiva proprietà del correntista iniziale. L’altra persona (il delegato) agisce sul conto corrente per mezzo una procura con poteri che possono essere più o meno estesi. In qualunque momento il correntista può ampliare, limitare o togliere alcune o tutte le facoltà della delega.

Con la cointestazione la soluzione è invece più profonda.

L’Art. 1854 del codice civile in proposito dice “Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto.

In buona sostanza, quando si depositano soldi sul conto corrente, il correntista perde la “proprietà” dei soldi stessa che diventano di proprietà della Banca. La Banca, a sua volta, diventa debitore del correntista di una somma pari a quella depositata. Quando si ha cointestazione la legge quindi dice unicamente che tutti i cointestatari “sono considerati” (quindi non “sono”, ma “sono considerati”) creditori della Banca (quindi “creditori” e non “proprietari del denaro”).

Di differente tenore l’art. 11 del D.Lgs. 31-10-1990 n. 346 (T.U. Successioni e Donazioni) che dice ”Per i beni e i titoli di cui al comma 1, lettera b), depositati a nome del defunto (…) compresi quelli derivanti da depositi bancari e da conti correnti bancari e postali cointestati, le quote di ciascuno si considerano uguali se non risultano diversamente determinate”

In questo caso la legge parla di titolarità per quote e detta una presunzione semplice di appartenenza (“si considerano uguali se non risultano diversamente determinate”) a tutti i contitolari per quote uguali. Tuttavia la norma ha solo implicazioni fiscali e comunque ammette la prova contraria.

Quindi la domanda è: a chi appartiene il denaro depositato sul conto cointestato ?

La Cassazione 9-07-1989, n. 3241, occupandosi di una somma versata in seguito alla liquidazione del TFR di un coniuge sul conto cointestato ad entrambi ci chiarisce che “Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati non dall'art. 1854 c. c., che riguarda i rapporti fra i medesimi e la banca, ma dall'art. 1298, 2° comma, c. c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente;” Quindi conclude che “ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (nella specie, trattandosi dell'indennità di buonuscita riscossa con il collocamento a riposo), si deve escludere che l'altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo”.

Sempre la Cassazione con Sentenza, 19-02-2009, n. 4066 occupandosi di un conto cointestato zio – nipote, ma con somme versate solo dal primo dispone “Nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall'art. 1854 cod. civ., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell'art. 1298 cod. civ., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l'altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo.”

Molto chiara poi la pronuncia della Cassazione  30-05-2013, n. 13614 “La cointestazione delle cassette di sicurezza autorizza il cointestatario alla relativa apertura e prelievo, ma non attribuisce al cointestatario, che sia a conoscenza dell'appartenenza dei beni contenuti ad altri, il potere di disporre come proprietario dei beni ivi contenuti. Analogamente, la cointestazione dei conti bancari autorizza il cointestatario ad eseguire tutte le operazioni consentite dalla cointestazione, ma non conferisce al medesimo, consapevole dell'appartenenza ad altri delle somme affluite su tali conti e dei relativi saldi, il potere di disporne come proprie.” Arrivando a confermare l’appropriazione indebita per chi opera in tal senso.

La giurisprudenza costante quindi ritiene che la cointestazione incide sulla legittimazione e non sulla proprietà del denaro depositato. Risponde quindi ad una esigenza pratica, permette al cointestatario di agire permettendogli una piena operatività nei confronti della banca, ma non è sufficiente a renderlo comproprietario del denaro (o meglio con creditore verso la banca). In questo senso da ultimo si è espressa la Cassazione con ordinanza 3-09-2019, n. 21963 “In tema di conto corrente, la cointestazione dello stesso, salva prova di diversa volontà delle parti, è di per sé atto unilaterale idoneo a trasferire la legittimazione ad operare sul conto e, quindi, rappresenta una forma di procura, ma non anche la titolarità del credito, in quanto il trasferimento della proprietà del contenuto di un conto corrente, ovvero dell'intestazione del deposito titoli che la banca detiene per conto del cliente, è una forma di cessione del credito che il correntista ha verso la banca e, quindi, presuppone un contratto tra cedente e cessionario.”.

Il titolare iniziale quindi vuole solo permettere ad un’altra persona di operare sul suo conto e non arricchirlo della metà della somma. Perché si abbia anche questo effetto andrà provata la volontà di perfezionare una liberalità indiretta.

Tra le tante il Tribunale Roma Sez. I, 06-06-2017 ha così stabilito: “La possibilità che la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora appartenuta ad uno solo dei cointestatari, possa costituire donazione indiretta è legata all'apprezzamento dell'esistenza dell'animus donandi, consistente nell'accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità”.

IN SINTESI

La cointestazione di un conto non rende il conto automaticamente di tutti i cointestatari.

Se la somma depositata sul conto apparteneva ad uno solo dei cointestatari prima della cointestazione continuerà ad appartenergli anche dopo.

Perché anche il cointestatario che non ha depositato nulla sul conto corrente possa essere considerato contitolare delle somme bisognerà provare che con la cointestazione il correntista originario intendeva perfezionare una liberalità indiretta e quindi arricchire il cointestatario.